Imparare ad uccidere

Imparare ad uccidere

di Antonio Zuliani

Ad aprile 2015 fa è apparso sul New York Times un articolo firmato da Timoty Kudo, un capitano dei marines con servizi in Afganistan e in Iraq.

Nell’articolo il capitano racconta di quando ha dovuto prendere la decisione di ordinare ai suoi uomini di sparare o meno. Si trattava di due persone lontane, non si sapeva se fossero contadini o nemici. Kudo doveva scegliere tra le due alternative sulla base di pochi dati (orario insolito per due contadini, sembrava scavassero). Kudo decide di far sparare.

I suoi uomini si fidavano di lui e d’altra parte, essendo il più alto in grado  lì presente, la decisione spettava a lui, allora tenente appena giunto al fronte.

L’esperienza di Kudo.

Kudo riflette sul fatto che era stato addestrato a uccidere padroneggiando le tattiche migliori per farlo. Aveva letto e assimilato gli insegnamenti del tenente colonnello Grossman relativi ai fattori che influenzano la capacità di un individuo di uccidere. Lui aveva imparato a uccidere. Ma ciò nonostante in quell’istante aveva sperato che i suoi marines esitassero o gli fornissero ulteriori informazioni tali da fargli cambiare idea. Ciò non avvenne e il suo ordine fu eseguito subito e alla perfezione, lasciando due cadaveri sul terreno.

Da quell’episodio l’autore avvia una riflessione sul suo operato come militare, arrivando alla conclusione che né lui né i talebani combattevano per i motivi che lui si attendeva. Lui stesso arriva alla conclusione che i motivi del suo agire erano legati alla fedeltà ai suoi uomini, all’abitudine e al desiderio di sopravvivere. A suo parere i giovani talebani che incontrava poco avevano a che fare con i grandi disegni terroristici. Combattevano perché era quello che avevano sempre fatto contro gli stranieri venuti al loro villaggio.

Ritornando al tema dell’uccisione, il capitano Kudo riflette sul fatto che se qualcuno ti spara addosso hai il diritto di rispondere al fuoco, ma, dice amaramente, questa è una giustificazione legale e non morale.

La capacità di raccontarlo.

Proprio per questo motivo l’autore offre una riflessione di grande interesse relativa al fatto che una volta terminato il turno di servizio e rientrato in patria l’unico commento al suo operato è stato “grazie per il vostro servizio”. Mentre nessuna parola è stata spesa per aiutarlo. Aiutarlo a parlare di quello che era accaduto, della decisione che aveva preso quella notte in Afganistan di ordinare il fuoco su due uomini. Certamente il capitano aveva applicato le procedure. Ma questo ai suoi occhi non era sufficiente, anche alla luce della constatazione compiuta a posteri che i morti erano dei semplici contadini che cercavano di rientrare a casa in un’ora sbagliata.

Questo articolo è importante per tre motivi. È scritto da un soldato, è apparso su uno dei più importanti organi di stampa statunitens. Ma l’aspetto più significativo è che pone un problema sul significato morale dell’uccidere e sul fatto che, anche chi si trova a farlo per motivi di servizio, ha il bisogno di essere aiutato ad affrontare il significato personale del suo gesto, anche perché imparare a uccidere non è poi così facile.