Ricordi per la sicurezza

Ricordi per la sicurezza

Quando accade un incidente sul lavoro o si manifesta un errore all’interno di una procedura siamo indubbiamente spinti a ricordare ciò che è avvenuto.

Ricordare è importante per evitare che l’evento si ripeta o per trovare delle soluzioni per migliorare la sicurezza sul lavoro e le relative procedure.

 Attendibilità dei ricordi

 Evidentemente l’attendibilità di questi ricordi diventa essenziale per le azioni di miglioramento da mettere in atto. Ma questi ricordi sono veramente attendibili?

La comunità scientifica si è interrogata a lungo su questo tema, offrendo delle risposte che possono essere utili per mettere in atto le modalità più efficaci per raccogliere questi ricordi al fine di alimentare azioni di miglioramento.

 Migliorare la raccolta dei ricordi

 In sintesi, possiamo dire che coloro che si pongono l’obiettivo di raccogliere la parte positiva di questi ricordi è bene che tengano in considerazione che:

  • i ricordi si presentano spesso collegati l’uno con l’altro, anzi un evento richiama facilmente alla memoria qualcosa di simile già accaduto in precedenza. Un collegamento che va sempre preso in considerazione perché il legame che il nostro cervello fa dei ricordi può anche risultare negativo nella direzione di ritenere che se una cosa è accaduta ci si aspetta sempre che ne accada un’altra conseguente: è questo il pericolo da evitare;
  • in questa direzione può essere utile rafforzare questi legami nella misura in cui possono indurre le persone a comportamenti più adeguati. Senza temere di accettare la paura che, come è importante ricordare, funziona da attivatore di risposte positive e protettive, sempre che le persone siano debitamente formate su come comportarsi;
  • un altro aspetto da prendere in considerazione è quello che possiamo chiamare il tempo del “buon ricordo”. Ovvero considerare che dopo poche ore o pochi giorni i ricordi svaniscono o perdono di significato: quindi un’indagine, per fornire un esito positivo, deve essere svolta in tempi molto vicini all’evento accaduto;
  • anche l’età di chi ricorda è importante, perché le persone con il passare dell’età tendono a ricordare meno quello che è accaduto rispetto alle persone più giovani.

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Carico mentale

Carico mentale

Sembra facile fare più cose contemporaneamente: sembrano farlo tutti!

Ma il nostro cervello è incapace di pensare a tante cose contemporaneamente. Tanto più perché non gli diamo il tempo di gestirle.

Carico mentale

L’affaticamento che il nostro cervello fa per gestire tante cose contemporaneamente lo chiamiamo “carico mentale”. Questo carico lo avvertiamo attraverso un senso di malessere che proviene soprattutto dalla difficoltà a coordinare compiti che, presi uno per uno, non sono necessariamente complicati. Si tratta di sforzi destinati al fallimento, perché il cervello si satura. Ciò non ci impedisce di provarci, come se ci costasse troppo ammettere questa impossibilità cognitiva e mentale.

Il punto in comune fra i due principali tipi di sovraccarico mentale, quello acuto e quello cronico, consiste nell’accumulo di compiti. Compiti che, presi uno per uno, magari non sono così complicati. La differenza sta nel tempo: se nel primo caso si accumulano tutti nella stessa finestra temporale, nel secondo questo non succede.

 

Alcuni suggerimenti

Vediamo alcuni suggerimenti.

Da un compito a un altro 

Dal momento che non siamo in grado di svolgere più di un compito per volta, è meglio concentrarci sul compito del momento. Questo è possibile pur avendo costantemente presenti tutte le altre attività che stiamo cercando di svolgere, ma solo se aiutati da delle liste pre-preparate.

Nessun braccio di ferro 

Quando si mettono in competizione due compiti si rischia un braccio di ferro e un conflitto cognitivo che accresce la fatica mentale.

Evitare il conflitto

Nel senso di non sovraccaricare di troppa importanza un aspetto, rischiando una fatica eccessiva che poi arriva a far dimenticare altri impegni con conseguenti sensi di inadeguatezza: “mi sono dimenticato!”.

In questo senso ha importanza “mantenere la rotta” tra le cose più importanti e quello che lo sono meno.

Utilizzare una “to do list”

La famosa to do list, la lista delle cose da fare, ha senso soltanto se ogni compito è semplice o accompagnato dalla procedura per portarlo a termine.

Ad esempio, il compito «occuparsi dell’auto» potrebbe diventare: «prendere appuntamento con l’elettrauto per cambiare la batteria».

Automatizzare

Automatizzare i compiti che possono sembrare complicati è una delle chiavi per ridurre il carico cognitivo. Si tratta dei cosiddetti «trucchi del mestiere» che derivano dall’esperienza.

 

Altri suggerimenti e le spiegazioni scientifiche sono presenti nel documento completo che potrà ricevere e scaricare gratuitamente compilando il modulo sottostante.

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La percezione di insicurezza

La percezione di insicurezza

Il tema della percezione di insicurezza, al di là dei dati statistici o delle inevitabili polemiche politiche, richiede una riflessione in special modo nel merito delle strategie per affrontare questo pesante vissuto che certamente impatta sulla dicotomia malessere-benessere.

Questo senso di insicurezza cresce nei riguardi di tante circostanze sociali con due fonti principali, la cui conoscenza può permettere di elaborare strategie efficaci di risposta.

Ne parliamo in modo più approfondito nel documento dedicato.

La prima fonte: la paura dell’insicurezza

Si tratta di una paura che si manifesta verso la criminalità e l’ansia verso un determinato e specifico evento, dall’altra abbiamo la preoccupazione che la stessa società elabora a fronte di un possibile evento.

Una distinzione importante perché nel primo caso abbiamo il coinvolgimento diretto della persona come vittima (ad es. omicidio, aggressione), nel secondo invece riguarda un aspetto più generale, come crimini verso il patrimonio (ad es. furto, borseggio), questi ultimi classificati anche come criminalità predatoria.

Un danno però non solo economico nella misura in cui anche quello psicologico derivante, ad esempio, dal furto è percepito dalle vittime come più grave rispetto alla perdita della proprietà o al danno economico.

A questo proposito Hough (1985), che nelle sue ricerche si è occupato dei furti in appartamento e nei veicoli, rileva come il danno emotivo, per le vittime, sia superiore a quello economico. In particolare, sottolinea l’importanza degli effetti sociali e psicologici derivanti dall’aver subito atti di criminalità come i furti, evidenziando la permanenza di condizionamenti anche a molte settimane successive al furto e una diminuzione della socialità e della fiducia nei confronti del prossimo.

In questa direzione occorre considerare anche la presenza di sentimenti di rabbia, un senso di insicurezza e di paura di restare soli nel luogo nel quale i ladri sono già entrati. Ecco perché dopo un furto crescono le strategie che le persone mettono in atto per difendersi dal ripetersi dell’infrazione, proprio perché collegano parte della loro identità all’ambiente nel quale vivono e che sentono violato.

 

La seconda fonte: Incivility

La percezione della insicurezza è legata anche ai segni di “incivility” come quelli relativi alla presenza di atti di vandalismo nelle città perché visti come specchio di comportamenti antisociali, tanto più se considerati tollerati dalle Forze dell’ordine. Ecco allora che la percezione dell’insicurezza da parte dei residenti in una zona poco vigilata, nonché il senso di paura e di isolamento, arrivano a indebolire la fiducia nelle istituzioni per quanto concerne la loro capacità di prevenire la criminalità.

Nei confronti dell’incivility sociale risultano fondamentali come segni di inciviltà sociale: degrado urbano, droga, sporcizia e atti di vandalismo. Il sentimento di insicurezza è un sintomo del clima generale di un quartiere dovuto più alla percezione dell’incivility che all’incidenza reale della criminalità diretta sui singoli.

La incivility mostra come la disorganizzazione sociale contribuisca ad accrescere la preoccupazione dei residenti per i problemi relativi al proprio contesto sociale e che ciò provoca a sua volta maggiore preoccupazione e probabilità di sentirsi insicuri.

 

Fattori incidenti sulla percezione del rischio criminalità

La modalità di percezione dell’altro è spesso fonte di processi di stereotipizzazione e categorizzazione generalizzata alla base di pregiudizi sociali. Nascono così stigmatizzazioni nei confronti delle eterogeneità presenti nel tessuto sociale alimentando timori generalizzati verso ciò che non è familiare o conosciuto. Di qui la categorizzazione (immigrato = criminale) porta gli individui a selezionare e modificare le informazioni al fine di confermare la differenza fra i gruppi.

Molti studi hanno preso in considerazione l’ambiente rurale nel confronto con quello urbano al fine di comprendere le variazioni del “fear of crime” nelle due realtà.

Tra i fattori che supportano una riduzione della percezione del rischio criminalità è stata individuata nell’importanza dell’ampliamento della sfera sociale, che aumenta la percezione di serenità dell’ambiente in cui si vive incidendo sul senso di sicurezza e riducendo lo stress. L’importanza del sostegno sociale ed emotivo è stata confermata attraverso il metodo della network analysis (Fischer, 1982), ovvero l’analisi della qualità delle reti di socialità nelle quali il soggetto è inserito, come base per capire origine e trasformazione del sentimento di insicurezza e di paura del crimine. Anche Lagrange (1992) ha evidenziato che, nel contesto delle grandi città metropolitane, le relazioni umane sono maggiormente autonome rispetto a quelle vissute nell’ambiente di provincia o dei centri urbani minori, per cui l’apprensione individuale si unisce alla preoccupazione per la sicurezza che risulta più amplificata.

 

Considerazioni conclusive

Le azioni di prevenzione personali maggiormente indicate risultano quelle passive (non uscire la sera, non frequentare orari/luoghi a rischio, ecc.) e viene attribuita maggior importanza agli interventi pubblici che coinvolgono le Forze di Polizia rispetto ad altre forme alternative, come i progetti locali sulla sicurezza.

Tenendo conto che dalle variabili considerate emerge un timore generalizzato fra la popolazione riguardo il rischio di subire reati, appare sensato chiedersi se la criminalità percepita sia dovuta ad una situazione di criminalità reale oppure possa essere il risultato di condizionamenti sociali.

La percezione del rischio si conferma, sulla base dei risultati della ricerca scientifica, correlata anche a variabili di natura sociale, non rientranti nella categoria delle incivility, ma legate in particolare all’intera sfera dell’eterogeneità sociale. Vengono valutate “rischiose”, infatti, situazioni notoriamente considerate “critiche” (presenza di tossicodipendenza, prostituzione, ecc.), ma emerge che la percezione del rischio è correlata anche ad una varietà di categorie sociali che appaiono quindi frutto di stigmatizzazioni e pregiudizi sociali (nomadi, extracomunitari), come evidenzia la letteratura in materia.

Relazioni significative emergono inoltre tra il livello di rischio in città e la percezione dell’aumento del crimine, come anche tra la percezione che il crimine sia in aumento ed il timore di essere vittima di un reato.

Le analisi svolte palesano una variazione nella percezione del rischio rispetto a quei fattori maggiormente percepiti della propria realtà residenziale. In particolare, si evidenzia l’attribuzione di diverse cause al fenomeno criminale tra città, periferia e zona rurale. Tale demarcazione appare evidente anche di fronte alla molteplicità degli indicatori sulle tipiche paure caratterizzanti la società contemporanea: disoccupazione, immigrazione clandestina, terrorismo internazionale, solitudine, microcriminalità, ecc.

Tale dato suggerisce un’analisi degli strumenti pubblici di prevenzione che in qualche modo possono contribuire ad una flessione del fenomeno, ma che non vengono considerati efficaci dalla popolazione: in particolare, i progetti di sicurezza come ad esempio la videosorveglianza, non vengano considerati sufficienti per combattere il senso di insicurezza. Analogamente l’impiego di volontari per la sorveglianza del territorio (i cosiddetti “vigilantes”) non sembra altrettanto rassicurante rispetto all’impiego delle Forze dell’ordine. Se da un lato un presidio eccessivo da parte delle Forze di Polizia potrebbe indurre un effetto inverso di “militarizzazione” delle città, i dati delle ricerche confermano che, comunque, la presenza e la visibilità maggiore costituiscono una misura insostituibile per una diminuzione del fear of crime: percepire la presenza e un capillare intervento, serve a ridurre inquietudini e insicurezze, fornendo la necessaria serenità nella convivenza civile. Le Forze di Polizia sono considerate una presenza indispensabile per la tutela della propria incolumità e la maggiore visibilità delle stesse viene tradotta in maggiore prevenzione. Proprio la fiducia nelle Forze di Polizia evidenzia un giudizio positivo sul loro operato. In particolare, l’impiego e la presenza sul territorio di queste ultime sembrano avere un impatto così elevato sulla percezione della sicurezza da rendere poco incisiva qualunque altra forma alternativa di sorveglianza, pubblica o privata. Il pattugliamento della città è considerato importante, mentre l’assenza del poliziotto di quartiere viene valutata come “rischio medio”.

I risultati emersi potrebbero incidere nella scelta e sulla predisposizione di misure di contrasto della criminalità predatoria, che dovrebbero essere non solo efficaci per la riduzione del numero di crimini, ma anche capaci di offrire al cittadino una percezione di maggiore sicurezza. In particolare, emerge la necessità di implementare quelle figure (come il carabiniere, il poliziotto, l’agente di polizia municipale) che per vocazione sono preposte alla salvaguardia della sicurezza, dirigendo gli sforzi verso politiche adeguate (un coordinamento interforze piuttosto che verso un potenziamento o una diversificazione dei compiti), che diviene punto di riferimento per il cittadino (come lo è la recente figura del poliziotto/carabiniere di quartiere).

In allegato una bibliografia di approfondimento sul tema.

Analfabetismo funzionale

Analfabetismo funzionale

Analfabetismo funzionale e sicurezza sul lavoro. Un binomio a cui prestare molta attenzione. Lo faremo a partire dai dati Piaac-Ocse del 2019, segnalati da True Numbers.

 Il dato nazionale.

In Italia circa il 28% della popolazione tra i 16 e i 65 anni è analfabeta funzionale. Uno dei dati peggiori d’Europa, secondi solo alla Turchia dove il problema chiama in causa il 47% della popolazione.

Significa che non sa né leggere né scrivere? No. Vuol dire invece che alcune persone non sono in possesso delle abilità necessarie a comprendere a pieno e usare le informazioni quotidiane. Anche quelle che utilizziamo per informarle sui temi della sicurezza.

L’analfabetismo funzionale è particolarmente insidioso perché la persona conosce le singole parole, ma non ne comprende appieno il significato.

Ecco allora che la persona fatica a comprendere un testo cartaceo scritto, e ha ancora più problemi se questo è riportato su una pagina web. Un analfabeta funzionale diventa, così, spettatore passivo, che guarda senza recepire e assorbire le informazioni utili nella sua vita privata come in quella lavorativa.

Nel dettaglio, vi è un 5,5% che comprende solo informazioni elementari, contenute all’interno di testi molto brevi, caratterizzati da un vocabolario base. Un altro 22,2%, invece, si limita alla comprensione di testi misti (sia cartacei che digitali) purché siano corti.

Un dato che nei prossimi report sarà sicuramente maggiore, visto che, a causa della pandemia, il 62,3% dei giovani non ha potuto frequentare le lezioni in classe.

 Pericolosità dell’analfabetismo funzionale.

Questo dato, oltre alla difficoltà di comunicare ogni procedura e attenzione da attivare nel campo della sicurezza sul lavoro, ha una pesante influenza anche nel campo produttivo. Ciò nella misura in cui la possibilità per il sistema di essere innovativo e competitivo con gli altri si abbassa notevolmente con la presenza degli analfabeti funzionali. Persone che rientrando nella fascia d’età lavorativa faticheranno a comprendere e a partecipare alla sfida dell’innovazione tecnologica.

 Strategie di intervento

Al fine di diminuire l’incidenza negativa dell’analfabetismo funzionale occorre prestare molta attenzione alla leggibilità e alla comprensibilità dei testi, delle disposizioni o informazioni prodotti.

La leggibilità può essere definita come la facilità con cui l’occhio percorre le linee del testo medesimo. Il testo è come un percorso fatto da parole, formate a loro volta da numerose lettere caratterizzate dall’appartenenza ad un unico stile grafico, l’organizzazione grafica dello stesso, l’utilizzo dei colori e del supporto sul quale viene stampato.

La comprensibilità pone le sue basi essenzialmente sul lessico e sulla struttura delle frasi che il lessico compone. Un testo che fa largo e ricercato utilizzo di termini eleganti e/o un po’ arcaici rischia spesso di complicare notevolmente la lettura, minandone la comprensione.

 Cos’è dunque un buon testo?

Un buon testo è un testo che parla in maniera semplice. L’elevazione del lessico (come suggerisce la parola “elevazione” stessa) aumenta la distanza dal lettore. Mentre l’utilizzo di un linguaggio più famigliare e vicino, sia ai tempi che alle persone, contribuisce in maniera decisiva alla comprensione d’un testo.

In questa direzione è fondamentale l’utilizzo di una sintassi e di periodi che non risultino dispersivi o confusionari. La linearità del testo, la sua lunghezza e le sue proporzioni sono elementi discriminanti per la corretta trasmissione dei contenuti.

Testi che vanno, quindi attentamente esaminati, nella misura che anche il contrasto all’analfabetismo funzionale rientra in una buona politica di sicurezza sul lavoro.

Protocollo CNI CNOP

Protocollo CNI CNOP

Venerdì 20 maggio si è tenuto il primo Convegno nazionale per la presentazione del Protocollo di intesa tra il Consiglio Nazionale Ingegneri e il Consiglio Nazionale Ordine Psicologi.

Un Protocollo che sancisce la reciproco collaborazione sui temi della sicurezza.  sul lavoro e non solo.

Appare sempre più evidente che si tratta di un risultato che nasce dall’intreccio tra componenti tecniche, organizzative e comportamentali.

Contenuti del Convegno

 Dopo i saluti dei Presidenti Armando Zambrano (CNI), David Lazzari (CNOP) e di Fabrizio Curcio, il convegno si è articola in tre sessioni di lavoro:

  • La multifattorialità del rischio tra ingegneri e psicologi. Interventi di Antonio Zuliani e Gianluca Giagni.
  • La gestione aziendale e l’organizzazione delle risorse umane. Benessere aziendale e gestione dello stress. Interventi di Rocco Luigi Sassone e Pietro Bussotti.
  • Gli scenari emergenziali tra operatività e psicologia dell’emergenza. Interanti di Felice Monaco e di Mara Eleuteri.

La scelta di prevedere, per ogni tema, gli interventi dei rappresentai delle due categorie professionali segna il fulcro e l’importanza della collaborazione paritetica.

 Un Protocollo di ampio respiro

 Si tratta solamente dell’avvio di un lavoro di ampio respiro che aderirà a interessare e coinvolgere gruppi di lavoro misti nei vari territori nazionali.

I temi di lavoro saranno indicati dall’apposto Comitato di Coordinamento, ma potranno nascere anche da esigenze specifiche del territorio.

 Comitato di coordinamento

 Proprio a tale scopo i rispettivi Consigli Nazionali hanno nominato un Comitato di Coordinamento per l’attuazione del Protocollo composto da Pietro Bussotti, Gaetano Fede, Mara Donatella Fiaschi, Felice Monaco e Antonio Zuliani.