Considerazioni sulla guerra e sull’uccidere

Considerazioni sulla guerra e sull’uccidere

La guerra è una realtà che attraversa tutta la storia dell’uomo, nonostante questa non sia un’esperienza “naturale”.

Come abbiamo scritto in un contributo predicente, siamo infatti tutti portati fin dall’esperienza da neonati all’altruismo, a condividere le sofferenze con l’altro.

 

Abbiamo quindi deciso di affrontare il tema della guerra da due versanti: come questa esperienza incida sia su chi la combatte, ma anche sulle sempre maggiori vittime civili e, infine, su coloro, spesso i familiari, si trovano a condividere le esperienze atroci con gli ex combattenti.

Contributi che si susseguiranno cercando di mettere in luce questi versanti di quel mondo folle che è la guerra: perché la guerra rende folli tutti i suoi protagonisti, diretti o indiretti.

 

Per questa ragione, i contributi ascolteranno voci diverse, perché le complessità hanno sempre bisogno di confronti per arrivare a delineare l’avvio di un quadro di riflessione di un certo spessore. Contributi che contiamo aprano un dibattito tra chi segue il nostro lavoro.

 

Il primo lavoro riguarda il vissuto psicologico dei combattenti e sui loro traumi, troppo spesso trascurati dal dibattito pubblico.

La percezione di insicurezza

La percezione di insicurezza

Il tema della percezione di insicurezza, al di là dei dati statistici o delle inevitabili polemiche politiche, richiede una riflessione in special modo nel merito delle strategie per affrontare questo pesante vissuto che certamente impatta sulla dicotomia malessere-benessere.

Questo senso di insicurezza cresce nei riguardi di tante circostanze sociali con due fonti principali, la cui conoscenza può permettere di elaborare strategie efficaci di risposta.

Ne parliamo in modo più approfondito nel documento dedicato.

La prima fonte: la paura dell’insicurezza

Si tratta di una paura che si manifesta verso la criminalità e l’ansia verso un determinato e specifico evento, dall’altra abbiamo la preoccupazione che la stessa società elabora a fronte di un possibile evento.

Una distinzione importante perché nel primo caso abbiamo il coinvolgimento diretto della persona come vittima (ad es. omicidio, aggressione), nel secondo invece riguarda un aspetto più generale, come crimini verso il patrimonio (ad es. furto, borseggio), questi ultimi classificati anche come criminalità predatoria.

Un danno però non solo economico nella misura in cui anche quello psicologico derivante, ad esempio, dal furto è percepito dalle vittime come più grave rispetto alla perdita della proprietà o al danno economico.

A questo proposito Hough (1985), che nelle sue ricerche si è occupato dei furti in appartamento e nei veicoli, rileva come il danno emotivo, per le vittime, sia superiore a quello economico. In particolare, sottolinea l’importanza degli effetti sociali e psicologici derivanti dall’aver subito atti di criminalità come i furti, evidenziando la permanenza di condizionamenti anche a molte settimane successive al furto e una diminuzione della socialità e della fiducia nei confronti del prossimo.

In questa direzione occorre considerare anche la presenza di sentimenti di rabbia, un senso di insicurezza e di paura di restare soli nel luogo nel quale i ladri sono già entrati. Ecco perché dopo un furto crescono le strategie che le persone mettono in atto per difendersi dal ripetersi dell’infrazione, proprio perché collegano parte della loro identità all’ambiente nel quale vivono e che sentono violato.

 

La seconda fonte: Incivility

La percezione della insicurezza è legata anche ai segni di “incivility” come quelli relativi alla presenza di atti di vandalismo nelle città perché visti come specchio di comportamenti antisociali, tanto più se considerati tollerati dalle Forze dell’ordine. Ecco allora che la percezione dell’insicurezza da parte dei residenti in una zona poco vigilata, nonché il senso di paura e di isolamento, arrivano a indebolire la fiducia nelle istituzioni per quanto concerne la loro capacità di prevenire la criminalità.

Nei confronti dell’incivility sociale risultano fondamentali come segni di inciviltà sociale: degrado urbano, droga, sporcizia e atti di vandalismo. Il sentimento di insicurezza è un sintomo del clima generale di un quartiere dovuto più alla percezione dell’incivility che all’incidenza reale della criminalità diretta sui singoli.

La incivility mostra come la disorganizzazione sociale contribuisca ad accrescere la preoccupazione dei residenti per i problemi relativi al proprio contesto sociale e che ciò provoca a sua volta maggiore preoccupazione e probabilità di sentirsi insicuri.

 

Fattori incidenti sulla percezione del rischio criminalità

La modalità di percezione dell’altro è spesso fonte di processi di stereotipizzazione e categorizzazione generalizzata alla base di pregiudizi sociali. Nascono così stigmatizzazioni nei confronti delle eterogeneità presenti nel tessuto sociale alimentando timori generalizzati verso ciò che non è familiare o conosciuto. Di qui la categorizzazione (immigrato = criminale) porta gli individui a selezionare e modificare le informazioni al fine di confermare la differenza fra i gruppi.

Molti studi hanno preso in considerazione l’ambiente rurale nel confronto con quello urbano al fine di comprendere le variazioni del “fear of crime” nelle due realtà.

Tra i fattori che supportano una riduzione della percezione del rischio criminalità è stata individuata nell’importanza dell’ampliamento della sfera sociale, che aumenta la percezione di serenità dell’ambiente in cui si vive incidendo sul senso di sicurezza e riducendo lo stress. L’importanza del sostegno sociale ed emotivo è stata confermata attraverso il metodo della network analysis (Fischer, 1982), ovvero l’analisi della qualità delle reti di socialità nelle quali il soggetto è inserito, come base per capire origine e trasformazione del sentimento di insicurezza e di paura del crimine. Anche Lagrange (1992) ha evidenziato che, nel contesto delle grandi città metropolitane, le relazioni umane sono maggiormente autonome rispetto a quelle vissute nell’ambiente di provincia o dei centri urbani minori, per cui l’apprensione individuale si unisce alla preoccupazione per la sicurezza che risulta più amplificata.

 

Considerazioni conclusive

Le azioni di prevenzione personali maggiormente indicate risultano quelle passive (non uscire la sera, non frequentare orari/luoghi a rischio, ecc.) e viene attribuita maggior importanza agli interventi pubblici che coinvolgono le Forze di Polizia rispetto ad altre forme alternative, come i progetti locali sulla sicurezza.

Tenendo conto che dalle variabili considerate emerge un timore generalizzato fra la popolazione riguardo il rischio di subire reati, appare sensato chiedersi se la criminalità percepita sia dovuta ad una situazione di criminalità reale oppure possa essere il risultato di condizionamenti sociali.

La percezione del rischio si conferma, sulla base dei risultati della ricerca scientifica, correlata anche a variabili di natura sociale, non rientranti nella categoria delle incivility, ma legate in particolare all’intera sfera dell’eterogeneità sociale. Vengono valutate “rischiose”, infatti, situazioni notoriamente considerate “critiche” (presenza di tossicodipendenza, prostituzione, ecc.), ma emerge che la percezione del rischio è correlata anche ad una varietà di categorie sociali che appaiono quindi frutto di stigmatizzazioni e pregiudizi sociali (nomadi, extracomunitari), come evidenzia la letteratura in materia.

Relazioni significative emergono inoltre tra il livello di rischio in città e la percezione dell’aumento del crimine, come anche tra la percezione che il crimine sia in aumento ed il timore di essere vittima di un reato.

Le analisi svolte palesano una variazione nella percezione del rischio rispetto a quei fattori maggiormente percepiti della propria realtà residenziale. In particolare, si evidenzia l’attribuzione di diverse cause al fenomeno criminale tra città, periferia e zona rurale. Tale demarcazione appare evidente anche di fronte alla molteplicità degli indicatori sulle tipiche paure caratterizzanti la società contemporanea: disoccupazione, immigrazione clandestina, terrorismo internazionale, solitudine, microcriminalità, ecc.

Tale dato suggerisce un’analisi degli strumenti pubblici di prevenzione che in qualche modo possono contribuire ad una flessione del fenomeno, ma che non vengono considerati efficaci dalla popolazione: in particolare, i progetti di sicurezza come ad esempio la videosorveglianza, non vengano considerati sufficienti per combattere il senso di insicurezza. Analogamente l’impiego di volontari per la sorveglianza del territorio (i cosiddetti “vigilantes”) non sembra altrettanto rassicurante rispetto all’impiego delle Forze dell’ordine. Se da un lato un presidio eccessivo da parte delle Forze di Polizia potrebbe indurre un effetto inverso di “militarizzazione” delle città, i dati delle ricerche confermano che, comunque, la presenza e la visibilità maggiore costituiscono una misura insostituibile per una diminuzione del fear of crime: percepire la presenza e un capillare intervento, serve a ridurre inquietudini e insicurezze, fornendo la necessaria serenità nella convivenza civile. Le Forze di Polizia sono considerate una presenza indispensabile per la tutela della propria incolumità e la maggiore visibilità delle stesse viene tradotta in maggiore prevenzione. Proprio la fiducia nelle Forze di Polizia evidenzia un giudizio positivo sul loro operato. In particolare, l’impiego e la presenza sul territorio di queste ultime sembrano avere un impatto così elevato sulla percezione della sicurezza da rendere poco incisiva qualunque altra forma alternativa di sorveglianza, pubblica o privata. Il pattugliamento della città è considerato importante, mentre l’assenza del poliziotto di quartiere viene valutata come “rischio medio”.

I risultati emersi potrebbero incidere nella scelta e sulla predisposizione di misure di contrasto della criminalità predatoria, che dovrebbero essere non solo efficaci per la riduzione del numero di crimini, ma anche capaci di offrire al cittadino una percezione di maggiore sicurezza. In particolare, emerge la necessità di implementare quelle figure (come il carabiniere, il poliziotto, l’agente di polizia municipale) che per vocazione sono preposte alla salvaguardia della sicurezza, dirigendo gli sforzi verso politiche adeguate (un coordinamento interforze piuttosto che verso un potenziamento o una diversificazione dei compiti), che diviene punto di riferimento per il cittadino (come lo è la recente figura del poliziotto/carabiniere di quartiere).

In allegato una bibliografia di approfondimento sul tema.

E-mail come strumento

E-mail come strumento

La e-mail è da tempo uno strumento importante nella comunicazione aziendale. La modalità di lavoro non in presenza ha solo accentuato questa tendenza mostrandone vantaggi e limiti. Visto che l’esperienza, come sempre insegna, vediamo come inquadrare positivamente l’utilizzo di questo strumento di comunicazione aziendale.

Vantaggi dell’utilizzo della e-mail

 La e-mail ha indubbi vantaggi:

  • velocità;
  • non necessita di essere stampata, come le tradizionali comunicazioni interne e riduce i consumi di carta. Aspetto rilevante sia sul piano economico sia per quanto riguarda il consumo di materie prime per produrla;
  • al bisogno è più facilmente reperibile del documento cartaceo, senza considerare la complessità dell’archiviazione di quest’ultimo;
  • la si può inviare a qualsiasi ora e con molti mezzi.

E-mail e lavoro a distanza

Vi sono alcuni aspetti relativi all’aumento dell’utilizzo delle e-mail che vanno però attentamente considerati. Sintetizzando i risultati di innumerevoli ricerche in questo campo possiamo osservare che:

  • esiste una diversa tendenza alla risposta legata all’età. Molte ricerche stanno mostrando che un lavoratore giovane manifesta la tendenza alla risposta maggiore di un senior;
  • la lunghezza del testo influisce negativamente sulla percentuale di risposta;
  • la e-mail indirizzata a una specifica persona la spinge a rispondere in modo significativamente maggiore rispetto alla stessa inviata a un gruppo. Tanto più se nella forma del “per conoscenza”.

Certamente esistono degli strumenti per supplire ad alcune di queste caratteristiche, ma non sono scevri loro stessi da limiti. Si pensi a titolo di esempio ai server di posta elettronica che segnalano l’arrivo dei nuovi messaggi e possono creare distrazione e l’ansia della risposta. Aspetto tanto più rilevante se siamo alle prese con un altro impegno. 

Alcune indicazioni

Alcune prime indicazioni per non divenire “schiavi” delle e-mail. Sul contenuto del testo torneremo in seguito:

  • ridurre il loro numero;
  • evitare di essere prolissi nel testo;
  • evitare per quanto possibile il cc in quanto non permettono di capire, per l’interlocutore, la necessità di una risposta e riempiono la casella di posta;
  • indicare con la maggior precisione possibili il titolo della e-mail, fondamentale che l’oggetto sia chiaro e definisca lo scopo del messaggio.

Per i senior meglio una telefonata se si vuole una risposta.

Progettare il post smart working

Progettare il post smart working

Una delle conseguenze della prossima fine dello Stato di Emergenza riguarda la possibilità di prendere delle decisioni relative all’organizzazione del lavoro. Ci riferiamo a un aspetto che ha caratterizzato questi ultimi mesi: lo smart working.

Un modo di operare che ha avuto effetti positivi su molti piani. Ha certamente contribuito alla lotta al virus. Ha permesso a molte famiglie di trovare un equilibrio tra questo modo di lavorare e la gestione della Didattica a Distanza dei figli. Questo spiega il vasto gradimento che tante indagini stanno evidenziando a favore del mantenimento dello smart working anche per il futuro. Agli interrogativi già posti in un post precedente, desideriamo porre l’attenzione sull’eventuale ritorno in presenza dallo smart working. Nello specifico desideriamo soffermarci sul tema della ricomposizione dei gruppi di lavoro. Tema che occorre affrontare per rendere questo ulteriore passaggio utile per l’essenziale benessere del personale.

Chi rientra

La decisione relativa a quali collaboratori sono chiamati a rientrare nel luogo di lavoro deve essere la più condivisa possibile. Questo per evitare conflitti interni o dare l’impressione di creare disparità. Vi saranno, infatti, collaboratori che attendono positivamente questa decisione e altri che preferiscono continuare a lavorare da casa.

Come si rientra

Il lavorare a distanza ha, di fatto, minato la compattezza dei gruppi di lavoro. Una compattezza che non avviene solo perché i collaboratori si ritrovano all’interno di uno stesso ambiente. Lavorando da casa sono venuti a mancare tanti piccoli segnali e rituali che caratterizzano il funzionamento del gruppo stesso. Piccoli strumenti però di grande importanza: dalla pausa caffè, ai momenti di incontro informali. Si tratta di momenti che segnalano non solo il legame all’interno del gruppo, ma che aiutano a risolvere anche tante piccole difficoltà e incomprensioni tra le persone.

Incomprensioni che la formula del lavoro a distanza può aver accresciuto. Le video conferenze non permettono quelle essenziali fasi di rapporto informarle che precedono e seguono ogni riunione in presenza. Per non dimenticare come le comunicazioni via mail, pur scritte con le migliori intenzioni, possano risultare spesso di difficile comprensione e di facile fraintendimento. In questo contesto ci riferiamo al fatto che parole o frasi, poco significative per chi le scrive, possono creare reazioni negative in chi legge. Il tutto con una scarsa possibilità di comprensione più chiara. Sappiamo tutti come una frase acquisti il suo significato non solo per le parole che contiene, ma anche per il modo con il quale sono pronunciate.

Alcune attenzioni

Se, come riteniamo, l’equilibrio e il benessere del gruppo di lavoro è un valore per l’azienda, i due aspetti sopra segnalati vanni affrontati.

In primo luogo con un’opera di chiarezza e condivisione relativa alla scelta di chi rientra e chi rimane in smart working. Programmando modalità e anche riti di rientro che siano finalizzati a favorire, con il tempo necessario, la ricucitura delle relazioni tra i collaboratori.

Si tratta di progetti da focalizzare azienda per azienda, ma che nella nostra esperienza possono e devono essere messi in programma per un equilibrato futuro dell’azienda stessa.

Consenso

Consenso

Uno dei pensieri più infelici che possiamo fare concludendo una riunione consiste nel pensare che se nessuno dice nulla significa che c’è un consenso con quanto abbiamo detto. Una sorta di silenzio assenso: quello che spesso chiamiamo appunto “silenzio assenso”.

La trappola del consenso

In questo modo si compie però una sostanziale confusione con quella che è una regola amministrativa. Una regola secondo la quale la mancata risposta a un’istanza, da parte di una specifica e ben identificata autorità, va intesa come accoglimento della stessa.

Applicare questa regola amministrativa alle relazioni tra le persone comporta un grave errore cognitivo. Questo perché è sbagliato concludere che il silenzio significhi consenso con le cose che diciamo o con le conclusioni che abbiamo appena proposto.

A volte riusciamo a essere ancora più raffinati, arrivando a pensare che gli altri non dicono nulla perché le nostre argomentazioni sono state così efficaci, che nessuno trova modo di controbatterle.

Le cose però non stanno per nulla così. Il silenzio è solo silenzio e nasconde molte cose.

Può nascondere un profondo dissenso. Il fatto che gli altri ritengono che le nostre argomentazioni sono così deboli o, peggio, così sciocche che non vale la pena neppure di controbatterle.

Due strategie

Certamente possiamo rimediare chiedendo apertamente se ci sono osservazioni. Magari gli altri taceranno solo per far finire presto una riunione fin troppo lunga e noiosa. Ma almeno ci siamo sottratti all’errore cognitivo di credere che il silenzio sia sempre consenso.

Possiamo essere anche rigorosi, specialmente nel caso le decisioni siano importanti. Possiamo chiedere a tutti di esprimere esplicitamente le motivazioni delle loro opinioni. In questo caso il falso consenso appare più evidente: viene smascherato. Fastidioso? Sì, ma molto più utile per lo sviluppo di un progetto e per il clima del gruppo che lo deve realizzare di un consenso solo formale.