La mappa nella memoria

La mappa nella memoria

Molte volte la possibilità di una persona di poter uscire da una situazione di pericolo, pensiamo a esempio all’evacuazione di un edificio, dipende non solo da una corretta predisposizione di cartelli e indicatori, ma anche dalla sua capacità di orientarsi nello spazio. Per questo parliamo di mappa nella memoria

Questa dipende, in larga parte, dal fatto che una delle funzioni del cervello è quello di costruire, archiviare e usare delle proprie mappe mentali per questa finalità. Si tratta di modelli, a volte molto rozzi e approssimativi, dello spazio circostante che permettono di orientarsi all’interno di un ambiente, anche in luoghi complessi e mutevoli, prevedendo, alloccorrenza, la flessibilità necessaria a usare scorciatoie o deviazioni. Possibilità di straordinaria importanza quando una via di uscita nota e attesa, ad esempio nel corso di un’emergenza, appaia non utilizzabile.

 Questa costruzione di modelli, o creazione di mappe, si estende ben oltre lo spazio fisico. Ci sarebbero mappe mentali anche al cuore di molte altre capacità: la memoria, limmaginazione, il ragionamento astratto e persino la dinamica delle relazioni sociali.

Per rimanere nell’ambito del tema in esame è importante comprendere come fa il cervello a creare le mappe che gli permettono di orientarsi e di come tale processo possa essere favorito. Aspetto, questo, importante al fine di aumentare la sicurezza a fronte di una situazione di emergenza.

Cotruire la mappa nella memoria

Il cervello ha costantemente il compito di conoscere molte cose essenziali alla gestione della nostra posizione nello spazio. Da dove abitiamo, a dove lavoriamo, alla posizione del nostro negozio preferito. Luoghi che rintracciamo facilmente e verso i quali ci muoviamo velocemente e automaticamente. Pur non essendo del tutto chiarito il modo in cui organizziamo queste informazioni all’interno di una mappa coerente, sembra che il sistema ippocampo-entorinale sia un efficace disegnatore di queste mappe necessarie per localizzare noi stessi nello spazio, all’interno di una pianificazione attiva.

Un lavoro di pianificazione non è solamente un’attività consapevole, ma avviene anche nel sonno, quando sequenze di attività delle cellule di posizione si riattivano per riprodurre il passato o per simulare il futuro. Questa sorta di simulazione dei comportamenti spaziali è importante perché ci evita il compito gravoso di esplorare ogni volta molteplici alternative nel mondo reale prima di decidere quale azione intraprendere. Sarebbe una fatica immane con un ampio rischio di errore. Invece, questa sorta di simulazione offline ci permette di immaginare molte possibilità senza doverle sperimentare direttamente. In questo il sonno è un grande supporto.

Il ruolo del tempo e dello spazio

In questo complesso lavoro il tempo e lo spazio sono strettamente legati, come il nostro stesso linguaggio dimostra. Parliamo di un tempo che scorre, guardiamo «in avanti» al futuro e «indietro» al passato, e così via.

Gli stessi neuroni nel sistema ippocampo-entorinale codificano il decorso temporale dell’esperienza. Le cellule del tempo scaricano in momenti successivi, ma non segnano il tempo in modo semplice, come un orologio. segnano invece il contesto temporale, allungando o comprimendo la durata delle proprie scariche se, per esempio, varia la lunghezza di un compito. Ecco, infatti, che alcune cellule del tempo codificano anche lo spazio.

Le mappe non sono ritratti accurati del mondo in tutta la sua complessità. Piuttosto, sono rappresentazioni di relazioni, vale a dire distanze e direzioni tra posizioni, e tra ciò che esiste. Le mappe riducono una quantità vertiginosa di informazioni del mondo reale a un modello semplice, di facile lettura, utile per una navigazione efficace e flessibile.

I tipi di cellule citati in precedenza (cellule di posizione, cellule griglia, cellule dei confini) cucirebbero insieme questi elementi correlati in una mappa mentale che poi altre regioni cerebrali possono leggere per guidare la «navigazione», che sfocerà in una presa di decisioni adattativa. La mappa nella memoria permette di inferire relazioni, persino quando non sono state sperimentate. Permette anche alle scorciatoie mentali di andare oltre lambito dei domini spaziale e temporale.

 Bibliografia

 Social Place-Cells in the Bat Hippocampus. Omer D. B. e altri, in «Science», Vol. 359, pp. 218-224, 12 gennaio 2018.

Navigating Social Space. Schafer M. e Schiller D., in «Neuron», Vol. 100, n. 2,

  1. 476-489, 24 ottobre 2018.

What Is a Cognitive Map? Organizing Knowledge for Flexible Behavior.

Behrens T.E.J. e altri, in «Neuron», Vol. 100, n. 2, pp. 490-509, 24 ottobre 2018.

Navigating Cognition: Spatial Codes for Human Thinking. Bellmund J.L.S. e altri, in «Science», Vol. 362, articolo n. eaat6766, 9 novembre 2018.

Memoria

Memoria

La memoria risiede al centro della nostra identità, stabilendo una singola, continua percezione di noi stessi. Possiamo quindi dire che la memoria garantisce la continuità della nostra vita. Ci fornisce un quadro coerente del passato che colloca in prospettiva le esperienze in corso. Un quadro che può non essere razionale o accurato, ma che comunque permane. Senza la forza agglomerante della memoria, le esperienze sarebbero scisse in tanti frammenti quanti sono i momenti della vita.

Senza la possibilità di compiere viaggi mentali nel tempo, conferita dalla memoria, non avremmo consapevolezza della nostra storia personale. Questo ci impedirebbe anche di ricordare le gioie che fungono da nette pietre miliari della nostra esistenza.

La memoria non è una videoregistrazione

D’altra parte, questa stessa memoria non è certo un’accurata videoregistrazione di ogni singolo momento della vostra vita. Si tratta di un fragile stato cerebrale di un tempo passato che deve essere resuscitato perché ce ne possiamo ricordare. Certo dimentichiamo molte cose, ma il nemico del ricordo non è il tempo ma gli altri ricordi. Ogni nuovo avvenimento stabilisce nuove connessioni tra il numero finito dei neuroni. Il fatto sorprendente è che un ricordo sbiadito a noi non appare tale: noi crediamo, o perlomeno presupponiamo, che l’intero quadro sia ancora là. Il problema è che questa ricostruzione  può talvolta confinare con la mitologia. Quando passiamo in rassegna i ricordi della nostra vita, dovremmo farlo con la consapevolezza che non tutti i particolari sono accurati. Alcuni di essi provengono da storie su noi stessi che la gente ci ha raccontato; altri sono influenzati da quello che pensavamo avrebbe dovuto accadere.

Quindi nulla da stupirci se, anche a fronte di uno stesso evento, i testimoni lo ricordano in modo diverso. È come se ogni cervello stesse raccontando una storia leggermente diversa. Perché i loro cervelli, che sono diversi, hanno esperienze soggettive diverse.

 Viaggiare nel futuro per decidere

Oltre a ricordare il passato, la memoria ha la funzione di farci viaggiare anche nel futuro, grazie alle esperienza passate.

Bertoli si cantava come “un guerriero senza patria e senza spada/con un piede nel passato/ e lo sguardo diritto nel futuro”. Lewis Carol ha scritto “è una memoria ben misera quella che ricorda solo quello che è già avvenuto”.

Quindi, quando siamo alle prese con una decisione, il nostro cervello si proietta nel futuro. Con i lobi prefrontali e frontali simula i diversi risultati per generare un modello di come potrebbe essere il nostro futuro. Questo permette, ad esempio, di stimare quale sarebbe l’esito in ciascuno di quei potenziali futuri.

Certo non si tratta di previsioni perfettamente accurate perché ogni previsione è basata solo sulle proprie esperienze passate e sugli attuali modelli di come va il mondo. Ecco perché è importante elaborare le esperienze che stiamo vivendo. In questo modo ci diamo una possibilità in più di affrontare il futuro con meno ansia e meno condizionamenti.

Memoria tra realtà e fantasia

Memoria tra realtà e fantasia

Spesso constatiamo che è difficile far discernere la nostra memoria tra realtà e fantasia.

Quando recuperiamo un’informazione dalla memoria occorre considerare che il nostro cervello non è strutturato per riconoscere la differenza tra un’esperienza veramente accaduta e un’esperienza immaginata. In altri termini non c’è nessuna area neuronale specificatamente adibita a registrare i ricordi di fatti veramente accaduti o immaginati.

 Questo fatto acquista una significativa importanza quando si tenta di ricostruire un incidente o un infortunio, in specie se accaduto all’interno di una situazione ordinaria.

 Il meccanismo delle memoria.

 Per fare un esempio proviamo a pensare a ieri mattina. Certamente un fatto accaduto è l’essersi alzati dal letto, questo fatto è stato registrato nella memoria a lungo termine e può essere facilmente recuperato. Successivamente, con tutta probabilità trattandosi di un prodotto che c’è in casa e di un gesto facilmente agito ogni mattina, ci siamo fatti un caffè.

Se andiamo ai ricordi di ieri mattina, i gesti di alzarsi dal letto e farsi un caffè appaiono nella memoria sullo stesso piano: entrambi reali. Il primo è certamente accaduto, altrimenti saremo rimasti a letto tutto il giorno. Ma quale certezza c’è che il secondo sia veramente accaduto o che recuperiamo questo ricordo perché plausibile, ordinario, ma forse non avvenuto proprio ieri mattina?

 È proprio l’ordinarietà, l’abitudinarietà e la consequenzialità dei due gesti ce li fanno apparire, nella nostra memoria, come entrambi reali. Al punto che saremmo disposti a testimoniare che è andata proprio così. Perché solitamente così accade.

 Strategie per ricordare

 In fondo la differenza tra questi due ricordi è molto sottile, ma può essere recuperata cercando di rintracciare le singole tracce sensoriali.  Si può provare a localizzare ricordi all’interno del campo visivo (ad esempio di che colore e dove era la tazzina di caffè) o provando a ricordare i suoni associati ai due diversi ricordi.

È un percorso molto delicato, ma utile da conoscere per comprendere le dinamiche di un evento quando appaiono diverse da quello che la memoria ricorda.

 Il modo in cui si conduce un’indagine è decisivo per far emergere quello che è veramente accaduto (Zuliani e Santoro, 2019). Piccole attenzioni relazionali e tecniche, un volta apprese, possono migliorare la capacità di comprendere e di aiutare gli altri a ricordare ciò che è accaduto. In questo modo è possibile discernere la memoria tra realtà e fantasia.

 Bibliografia

 Zuliani A. & Santoro D. (2019). La variabilità della prestazione per migliorare la sicurezza sul lavoro. Metodi e strumenti. Il Performance Variability Model, Wolters Kluwer.

Dimenticare i nomi

Dimenticare i nomi

Dimenticare i nomi

di Antonio Zuliani

Fa parte dell’esperienza quotidiana il dimenticare i nomi. Non il nome di persone qualsiasi, ma spesso i nomi di persone conosciute, a volte anche care. L’imbarazzo e la preoccupazione che ne conseguono è ampiamente condivisa. Vediamo come questa esperienza sia assolutamente normale e non denoti alcun limite cognitivo. Dimenticare i nomi delle persone è un’esperienza ampiamente condivisa ed è un fenomeno sempre più frequente con il protrarsi dell’età. Questo fatto non è da attribuirsi solamente alla decadenza della memoria, ma la significato che hanno i nomi stessi.

Baker/baker

Come già aveva osservato John Stuart Mill (1843) dimenticare i nomi è assolutamente comprensibile perché i nomi delle persone non “ indicano né implicano nessun attributo che appartenga a questi individui”, infatti, i nomi propri non forniscono informazioni rispetto alla persona che possano aiutarci in questo ricordo. Per comprendere questa situazione possiamo richiamare il paradosso Baker/baker. Si tratta di un esperimento che consiste nel mostrare a delle persone l’immagine di volti maschili sconosciuti a due gruppi di persone. Al primo gruppo viene fornito un nome da associare al volto, al secondo un mestiere. Nel primo gruppo la prima persona mostrata si chiama Baker e la seconda Potter (rispettivamente fornaio e vasaio in italiano). Nel secondo, quello riferito al mestiere, la prima persona è un baker (fornaio) e la seconda un potter (vasaio).

Ebbene, il ricordo successivo dell’abbinamento volti-parole risulta molto più corretto quando il riferimento è al lavoro svolto e non al nome proprio. Burke e MacKay (1991) hanno elaborato una teoria legata alle rappresentazioni concettuali che il diverso uso della parola “baker” suscitano nel singolo individuo. Così risulta molto più facile ricordare la rappresentazione mentale di baker perché a essa si possono associare che lavora in cucina, cuoce il pane, si alza di notte, eccetera, rispetto all’ordinamento del nome proprio. Essendo quindi molto tenue il collegamento tra la rappresentazione lessicale (il nome della persona) e quella concettuale (ovvero chi è quella persona) è molto facile che al momento opportuno non riusciamo a ricostruire questo collegamento e quindi pur avendo ben chiara la figura di quella persona, magari anche il suo lavoro, dove abita, quando l’abbiamo conosciuto, non riusciamo ad abbinare il nome esatto. L’ulteriore dimostrazione di queste connessioni che provocano la dimenticanza è legato al fatto che nelle culture nelle quali i nomi di persone riflettono le caratteristiche di chi li porta questo blocco nel ricordo dei nomi è molto minore anche in età avanzata.

Strategie efficaci

Questo fenomeno è meno rilevante rispetto agli oggetti perché anche se non ricordiamo il nome esatto possiamo utilizzare una serie di parole che descrivono con sufficiente efficacia. Ad esempio posso non ricordare che quel bellissimo oggetto di arredo si chiama “sultana”, ma non sbaglio di molto che lo chiamo divano, sofà o canapè. Sulla base di quanto fin qui descritto appare evidente che una strategia per ricordare il nome è quella di costruirsi, anche utilizzando le possibilità tecniche fornite da un qualsiasi telefono cellulare, una sorta di database che permetta di connettere il nome della persona con altre caratteristiche quali professione, luogo di abitazione, occasione di conoscenza, che renda possibile con una semplice consultazione di ritrovare il nome della persona che stiamo incontrandola rimettendo al centro dei ricordi e quindi evitando gli spiacevoli imbarazzi di cui si parlava quando ci si trova a dimentica i nomi.

Bibliografia

Burke D., MacKay D., (1991), On the tip f tongue. What causes word failure in young and older adults?, in Joyrnal of y and Language, n. 30, pp. 237-246, 1991. Mill J.S., (1843), Sistema di logica deduttiva e induttiva, Utet, Torino, 1998. Schacet D.L. (2001), I sette peccati della memoria, Mondadori, Milano, 2002

Memoria e istruzioni

Memoria e istruzioni

Memoria e istruzioni

di Antonio Zuliani

Nel campo della sicurezza uno dei temi centrali riguarda le strategie per fornire istruzioni alle persone anche in situazioni acusticamente difficili e per verificare che rimanga nella loro memoria.

Una recente ricerca condotta da Victor Boucher e da Alexis Lafeur (2015) dell’Università di Montreal ci può aiutare perché evidenzia come il parlare ad un’altra persona fissa la memoria.

I due ricercatori hanno chiesto a 44 studenti universitari di leggere una serie di parole su di uno schermo; mentre leggevano indossavano delle cuffie che non permetteva né di sentire la propria voce né alcun altro feedback uditivo.

Ai soggetti era chiesto di ripetere le parole lette mentre comparivano sullo schermo, seguendo 4 differenti condizioni sperimentali che consistono nelripetere:

  • le parole nella loro testa,
  • silenziosamente, ma muovendo le labbra,
  • ad alta voce guardando lo schermo,
  • ad alta voce rivolgendosi a qualcuno.

Dopo un’attività distraente era chiesto loro di identificare, all’interno di un elenco, le parole precedentemente lette.

I risultati

I risultati mostrano una chiara differenza nel numero delle parole riconosciute quando il soggetto aveva ripetuto lo stimolo originario ad alta voce di fronte ad una persona, rispetto a quelli che si erano limitati a ripeterle nella loro testa (le altre condizioni sperimentali davano risultati intermedi).

Secondo Boucher il fatto di parlare ad un’altra persona, anche se non si sente la parola pronunciata, determina un legame senso-motorio che favorisce il ricordo e quindi è una buona strategia di apprendimento.

Lafleur ha confermato questo risultato utilizzando sequenze di sillabe che non componevano delle parole con senso compiuto. Anche in questo caso i soggetti ricordavano le “non parole” con maggior efficacia quando le avevano pronunciate ad alta voce di fronte ad un’altra persona.

Conclusioni

Il conclusione, le esperienze senso-motorie favoriscono la conservazione della memoria per cui appare del tutto plausibile pensare che una utile strategia per fornire istruzioni sia quella di farsi ripetere le istruzioni fornite facendosi guardare in volto: anche la persona che le ripeterà pur non riuscendo a sentirsi sarà maggiormente facilitata nel fissarle nella sua memoria.