Processi decisionali e pandemia

Processi decisionali e pandemia

Questa pandemia sta mettendo in luce alcune caratteristiche dei processi decisionali. Metterle in luce per imparare da quello che stiamo vivendo, per apprendere lezioni che possono essere utili per il futuro per prendere decisioni difficili.

La fatica decisionale

 Un aspetto che è sotto gli occhi di tutti si chiama fatica decisionale (decision fatigue). Si tratta di una fatica nel prendere delle decisioni che deriva dall’insicurezza. Di questi tempi non sapere esattamente quali siano le soluzioni migliori, le più adatte a combattere la pandemia.

Molti possono sperare che le cose si sistemino da soli: il virus sparirà! O che arrivi un vaccino che lo debelli velocemente.

A peggiorare le cose c’è il fatto che qui non stiamo prendendo decisioni relative a cosa mangiare questa sera, ma alla nostra stessa sopravvivenza. E l’urgenza legata all’ansia non aiuta.

In questi casi cresce il bisogno di raccogliere maggiori informazioni per poter alla fine decidere con certezza. Ecco allora l’ascoltare l’esperto di turno che spesso vive di maggior popolarità nella misura in cui le sue tesi sono più radicali e definitive. Il nostro cervello ama pensare che si sia sempre una soluzione semplice che non lo affatichi troppo. Non importa quanto negativa essa possa apparire: l’incertezza provoca una sofferenza spesso intollerabile.

La paralisi decisionale

Ma tutte le ricerche di informazioni e di notizie possono alla fine produrre l’effetto contrario. Ci possono portare alla paralisi decisionale. Proprio perché quando abbiamo troppe informazioni a nostra disposizione non sappiamo più che pesci pigliare. E qui si rischia di aprire un circolo vizioso: continuiamo a cercare nuove informazioni, a soffermarci anche su dettagli secondari, aumentando la fatica, l’indecisione e la paralisi. Se trasferiamo questo meccanismo dalla singola persona al gruppo possiamo arrivare a un blocco decisionale collettivo.

Una strategia che spesso utilizziamo in queste circostanze è quella del rinvio, dell’attendere che siano altri a decidere. Straordinaria soluzione che ci permette poi di dire “hai sbagliato, come hai fatto a non capire, io avrei fatto in un’altra maniera!”.

Salvo poi che la situazione spesso non si risolve da sola e le decisioni si devono prendere, e quelle prese all’ultimo istante sono spesso quelle più pericolose e dense di possibilità di errore.

Rompere la paralisi decisionale

 Torneremo sul tema. Qui soffermiamoci su una proposta che può essere utile per rompere la paralisi decisionale e migliorare i processi decisionali. Scrivete su dei foglietti le diverse decisioni da prendere e poi pescatene uno (se le alternative sono solo due potere usare anche una moneta con il classico testa o croce). Affidarsi quindi solo alla sorte? No! Mentre state pescando il bigliettino ascoltate dentro di voi quello che vorreste uscisse. Almeno sarete consapevoli di quello che è il vostro desiderio interiore e valutatene l’importanza. Perché, in ogni caso, sarà lui a guidare i nostri processi decisionali: saperlo può aiutare almeno a non ingannarci.

Lavoro in solitudine

Lavoro in solitudine

Lavoro in solitudine

di Antonio Zuliani

Il lavoro in solitudine sta crescendo anche a causa dell’evoluzione tecnica e presenta tre caratteristiche rilevanti per la salute e la sicurezza del lavoratore, ma anche per la sicurezza generale nell’azienda:

  • in primo luogo espone alla possibilità di non essere soccorsi in caso di malore o in caso di infortunio;
  • in secondo luogo mette il lavoratore in condizione di affrontare da solo situazioni che richiedono una consapevolezza della situazione e una presa di decisione, a fronte di eventi più o meno anomali legati al processo lavorativo e alla sua sicurezza;
  • la terza criticità è collegata ad aspetti di natura psicologica e sociale che possono avere importanti ripercussioni sullo stato di benessere del lavoratore: ed è il tema dello stress legato alla specifica condizione del sentirsi da solo.

Per quanto riguarda l’aspetto legato all’allarme a fronte di malori, infortuni, incidenti, oggi le soluzioni tecnologiche (sistemi di trasmissione, GPS, applicazioni ai cellulari, segnalatori automatici di malessere, eccetera) sono in grado di offrire una risposta, soprattutto se combinate tra loro.

Sono invece, scarsamente affrontati gli altri due aspetti che incidono sia sui comportanti indotti dal lavoro in solitudine, sia quelli connessi ai processi decisionali.

Il ruolo dell’alcol.

Nel primo caso pensiamo all’abuso di alcol (se si è da soli è più facile sfuggire ai divieti di consumo in orario di lavoro) e all’abuso di fumo possono a loro volta divenire un fattore di difficoltà nell’assunzione di decisioni in situazioni critiche, e quindi rappresentare un fattore di rischio per la persona e un pericolo per il processo produttivo. Lo stesso abuso di cibo è contrario al benessere e alla salute del lavoratore.

E’ ben vero che si tratta di comportamenti spesso vietati nell’ambiente di lavoro, ma è altrettanto vero che esistono e che non prendere in considerazioni il fatto che possano essere stimolati o accentuati da determinate condizioni di lavoro non appare produttivo per chi si voglia veramente occupare del benessere dei lavoratori.

I processi decisionali.

Vi sono, inoltre, molte situazioni nei quali il lavoratore è chiamato a prendere delle decisioni. Può trattarsi di eventi improvvisi, anche se non inattesi, di eventi che possono compromettere la sicurezza per lui stesso, per il processo produttivo e anche per le strutture aziendali.  Per la maggior parte di queste situazioni è verosimile (e obbligatorio) che l’azienda abbia condotto delle previsioni, sviluppato piani di intervento se non addirittura di veri piani di emergenza. E che abbia impegnato il lavoratore in opportuni corsi di formazione, ripetuti nel tempo.

Pur tuttavia vi è sempre un margine decisionale da parte del lavoratore sia nel dare risposta agli eventi (accorgersi di un’anomalia, di un malfunzionamento), sia nel decidere quale soluzione adottare per risolverli.

Questo aspetto è simile alla condizione di altri lavoratori, che pur non essendo definibili come lavoratori in solitudine si possono trovare ugualmente soli nel prendere decisioni vitali: pensiamo agli infermieri soli di notte nei reparti ospedalieri, o agli operatori di notte nelle case di riposo: appunto non soli, ma con l’affidamento di persone a loro affidate, le cui condizioni di salute possono aggravarsi in breve tempo. Anche il loro processo decisionale si svolge, almeno per un certo tempo, in solitudine e sotto la tensione di una forte responsabilità. Condizioni in cui è più facile sbagliare.

Misure possibili.

Se il lavoro in solitudine non rappresenta di per sé un rischio, bensì una condizione di lavoro che può esporre il lavoratore alle tre situazioni di rischio accennate, è allora il caso di ridurlo al minimo. Tra le misure da adottare, la valutazione dei rischi, la formazione ripetuta, la sorveglianza sanitaria, la valutazione dello stress lavoro correlato. Tra le scelte organizzative, è il caso di prevedere, ad esempio, che non siano sempre gli stessi soggetti ad essere adibiti al lavoro in solitudine, indipendentemente dalle loro opzioni. Riteniamo infatti sia compito dell’organizzazione favorire la rotazione e non caricare di turni di solitudine coloro che si offrono. Occorre, in altri termini, abbandonare la logica della disponibilità per abbracciare quella dell’idoneità.

Altra misura di attenuazione può consistere in un periodico contatto audio/video con il lavoratore che opera in queste condizioni.

Per ulteriori approfondimenti leggi il numero 38 della rivista PdE

Volo 604

Volo 604

Volo 604

di Antonio Zuliani

Vi sono molte circostanze nella vita lavorativa nella quali la tecnologia può aiutarci a non commettere errori, più o meno significativi. Dato per certo che un errore, al contrario di una violazione, è un atto involontario, possiamo affidarci solo alla tecnologia per eliminarli?
Certamente poter fornire una risposta positiva a questa domanda sarebbe fonte di grande rassicurazione: si tratterebbe solo di trovare le giuste soluzioni tecniche. Le cose non sono così semplici e un ambiente umano privo di errori è solo utopia.

Il caso bancomat

Certamente vi sono degli errori verso i quali una strategia tecnica ha effetti decisamente positivi, ma il più delle volte si tratta di comportamenti semplici e facilmente strutturabili. Un valido esempio è una correzione tecnica applicata da tempo ai bancomat.
Fino a qualche anno fa, quando “facevamo un bancomat”, la macchina erogava il denaro richiesto e poi restituiva la tessera. La conseguenza di questa procedura era il grande numero di tessere dimenticate, con relative complicazioni sia per il cliente sia per la banca. Questo errore era probabilmente legato al fatto che il cliente, una volta soddisfatto il suo bisogno di denaro, allentava la sua attenzione. Ciò portava a una conseguente disattenzione verso il “destino” della sua tessera.
Per evitare questo errore le banche hanno invertito l’ordine di consegna. Consegnando prima la tessera e successivamente il denaro, si è determinata una conseguente drastica diminuzione della “dimenticanza” delle tessere. Infatti è ben più difficile dimenticare il denaro “richiesto”.

Questo esempio mette in luce uno dei meccanismi più comuni che determina un errore. La realizzazione di un evento atteso (denaro) che sottrae l’attenzione da eventi che possono essere collegati allo stesso (restituzione della tessera).
Altre volte la presenza di eventi che non corrispondono alle attese possono determinare un vero e proprio disorientamento cognitivo che non permette di interpretare correttamente gli stessi dati forniti dalla tecnologia.

La vicenda del Volo 604

Per approfondire la cosa riandiamo all’incidente aereo del volo 604 della Flash Airlines sul Mar Rosso il 3 gennaio del 2004. L’aereo, un Boeing 737 – 300 appena partito dall’aeroporto di Sharm el-Sheikh si inabissò provocando la morte di 148 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio.

Le cause di questo incidente non sono mai state accertate con precisione, anche perché non fu possibile recuperare il relitto dell’aereo data la grande profondità dei fondali. Vi sono però alcune evidenze dell’inchiesta ci permettono di aprire alcune interessanti piste di riflessione.

La commissione di inchiesta non arrivò ad un verdetto unanime, né qui vogliamo prendere posizione in merito alle due teorie emerse: il guasto tecnico e il fattore umano. Desideriamo soffermarci su alcuni aspetti che possono risultare utili anche al di fuori del campo aeronautico.

Iniziamo dall’aereo, sulla sua efficienza e sui livelli di manutenzione. Ebbene di questo sappiamo poco, perché l’unica copia del diario tecnico di manutenzione era a bordo dell’aereo. Ma, dalle conversazioni di bordo sappiamo che, prima del decollo, il pilota discusse su un problema elettrico a una strumentazione con l’ingegnere addetto alla manutenzione. Di cosa si trattasse e se ciò possa aver influito nel disastro non lo possiamo sapere perché non esiste registrazione scritta relativa alla segnalazione e l’ingegnere risulta tra i deceduti.

Il non aver lasciato traccia scritta delle considerazioni che i due fecero sul problema ci lascia nel dubbio e ci ricorda, sulla base della piramide di Heinrich, che ogni incidente grave è preceduto da tanti eventi mancati e da un numero ancora maggiore di situazioni anomale. Non raccogliere tutto questo materiale e non darvi il giusto risalto apre la strada a incidenti ed errori che potrebbero essere evitati. Ad esempio, ma si tratta solo di un’ipotesi di discussione, un malfunzionamento elettrico di una componente dell’aereo potrebbe essere una delle cause dell’incidente e non solo non risulta correggibile su quel volo, ma non suggerisce miglioramenti relativi agli altri aereomobili.

L’importanza del fattore umano

Passiamo ora ai fattori umani, iniziando dal pilota del volo 604.

Abdullah Khadr, era particolarmente esperto dall’alto delle sue 7.444 ore di volo ed era un eroe di guerra. Ma questi dati lo qualificavano veramente come esperto? Occorre però consideriamo che le ore di volo sul 737 erano 474 e che la strumentazione del suo MIG 21 era molto diversa da quella dell’aero di linea. Questo fatto ci si può ragionevolmente far chiedere se non ci troviamo di fronte ad un caso di over-confidence. Ovvero di troppa confidenza in se stessi, confermata dalla fama sociale.

Ci potremmo chiedere fino a che punto la “fama” del comandante può aver indirizzato la commissione di inchiesta egiziana (MCA) a propendere per il guasto tecnico come causa dell’evento.Conclusione diversa sìda quella della commissione statunitense (NTSB) e da quella francese (BEA) che si sono dichiarate più inclini al fattore umano.

L’esperienza del comandante sembra mal rapportarsi con un fenomeno che sembra averlo direttamente interessato. Un evidente disorientamento rispetto al fatto che l’aereo non si comportava nel modo da lui atteso. Doveva virare a sinistra e, invece, rollava verso sinistra. Il pilota sembra reagire in ritardo a questa inattesa anomalia e al fatto che le sue strategie per correggerla non davano il frutto sperato.

Ma come può accadere che un pilota esperto entri in una fase di confusione o, addirittura, commetta errori relativi all’interpretazione di quanto sta accadendo? Non possiamo sapere cosa sia passato nella mente del pilota in quel momento.  Siamo perfettamente consapevoli che chiunque, indipendentemente dalla sua bravura, può commettere degli errori come quello di scegliere una soluzione inefficace e di continuare a perseguire in quella direzione, escludendo altre opzioni.
In questo caso possiamo parlare di una perdita di consapevolezza situazionale, una perdita di consapevolezza del tempo che passa e della gravità della situazione. Di fronte a questo rischio un grande aiuto può venire dalle altre persone presenti, che possono suggerire soluzioni più efficaci.

La mancanza di un confronto.

Questa considerazione ci porta al terzo aspetto: l’equipaggio del volo 604.

Nella cabina erano presenti altri due piloti: Amr Shaafei, copilota e un allievo che stava seguendo l’addestramento per diventare Primo Ufficiale. E le dinamiche intercorse tra i tre, così come le possiamo ricostruire dalla conversazioni registrate nella “scatola nera” sono di un certo interesse e suggeriscono ulteriori riflessioni.

Prima di decollare, almeno due volte il pilota e l’allievo avevano ironizzato sul comportamento che avrebbe avuto il secondo pilota. Shaafei, nel volo precedente, quando si mostrò più abile del comandante nel vedere la pista pur abbagliato dal sole. Fino a che punto queste osservazioni hanno influito su una certa “titubanza” che il copilota manifesta nel far notare al comandante che non si sta rendendo conto di quello che sta accadendo e che le sue decisioni non paino le migliori?

Ovviamente non lo possiamo determinare con precisione, ma, di fatto, la “squadra di bordo” non appare coesa e di reciproco aiuto nel gestire l’emergenza. D’altra parte l’equipaggio non aveva partecipato al programma di addestramento CRM (Crew Resource Management) progettato per aiutare i piloti a lavorare come squadra e non come singole persone. Questa mancata collaborazione ritardò di ben 24 secondi l’avvio delle manovre correttive atte e a riportare l’aereo nel corretto assetto di volo.

Una lezione appresa

Quello che i piloti di aereo hanno ben compreso è che anche il miglior specialista può rimanere bloccato all’interno di una lettura della situazione e della scelta di una strategia non efficaci. La misura correttiva ai conseguenti errori sta nel lavoro di squadra e nell’assoluta responsabilizzazione delle altre persone presenti a suggerire soluzioni più efficaci ed anche a metterle in pratica se non adeguatamente ascoltati.

Si tratta di un processo formativo che può risultare utile per tutte le aziende che vogliano essere “organizzazioni affidabili”. Un processo che coniuga l’analisi e la consapevolezza degli errori che si possono commettere di fronte ad una situazione critica, con lo sviluppo delle competenze personali, all’interno di un lavoro di squadra. Aspetto quest’ultimo facilmente dichiarabile, ma di difficile realizzazione, perché richiede la capacità di assumere un atteggiamento assertivo non finalizzato a conseguire il consenso, ma a migliorare il processo decisionale.

Questo richiede la realizzazione di un ambiente aperto ai suggerimenti, dove viene privilegiata la capacità di ascoltare nella consapevolezza che a volte chi ci circonda non solo deve sapere cosa fare in quella circostanza, ma deve imparare ed avere l’opportunità di sapere come dirlo, come accaduto nel Volo 604.