Comunicazione in stato di crisi

Comunicazione in stato di crisi

New York, Londra, Tokyo:

La gestione della comunicazione in stato di crisi

 

A proposito di comunicazione in stato di crisi, appare evidente che il coinvolgimento di persone con funzione pubblica significativa è una strategia valida, perché possono trasmettere un importante senso di sicurezza. Pur tuttavia occorre ricordare che il ruolo pubblico non è di per sé sufficiente per validare una notizia o per determinare la reazione delle persone a fronte di un potenziale pericolo. Si tratta di una strategia vincente se la spiegazione assume una sua logica e se essa non viene smentita dai fatti. In questo caso il legame fiduciario che aveva all’inizio creato un effetto “rassicurante” si ritorce contro l’organizzazione con una perdita di credibilità da cui è difficile risalire.

Tre casi sono emblematici nella storia della comunicazione in stato di crisi.

New York 1985

Nel 1985 si rilevò che il bacino idrico che alimentava l’acquedotto di New York era stato inquinato da alcuni grammi di plutonio.

Pur essendo la quantità dell’inquinante assolutamente irrilevante la preoccupazione era che si potesse scatenare un’inquietudine che avrebbe spinto i newyrkesi a sentirsi minacciati da un pericolo incombente.

Edward Irvin Koch, amato sindaco della città, si prestò ad una “recita” assolutamente efficace. Al termine di un’intervista televisiva, che non verteva su questo tema, egli bevve una bicchier d’acqua attinto dal rubinetto. L’effetto rassicurante fu poi confermato alla popolazione attraverso un’attenta comunicazione che li informò della portata dell’evento inquinante.

Inghilterra 1990

Il 6 maggio del 1990, dopo appena sei giorni da quando si era diffusa la notizia che un gatto era morto per una mallatia imputabile alla BSE, il Ministro dell’agricoltura inglese, John Gummer escogitò una strategia per tranquillizare i cittadini.

Durante il salone nautico di Soffolt si fece ritrarre mentre mangia un ambungher assiema alla figlioletta Cordelia e, all’esitazione della figlia, prese un grande boccone del panino ed esclamò “assolutamente delizioso”.

Il fatto che solo due anni dopo il probelma della BSE dovette essere riconoscito come esistente dallo stesso Governo (per dimenticare i 32 morti della sua forma umana, la CJD), rese poco credibili le campagne messe in atto per informare la popolazione

Lo stesso Tony Blair scontò questo atteggiamento di sfiducia quando, anni dopo dovette affrontare il tema degli alimenti geneticamente modificati.

Tokyo 2011

Yasuhiro Sonoda, segretario parlamentare per Cabinet Office del Giappone, nel tentativo di dimostrare che l’acqua della centrale nucleare di Fukushima, colpita dallo tsunami, non era più contaminata, si fece ritrarre mentre, con mano tremante, beveva un bicchiere d’acqua. Il suo atteggiamento e l’assoluta improbabilità della notizia che stava dando gli scatenarono l’accusa di aver voluta fare il “Gunner”, tanto l’errato gesto del ministro inglese è divenuto emblematico di una comunicazione errata.

Hudston è la soluzione

Hudston è la soluzione

Hudstone è la soluzione

di Antonio Zuliani e Wilma Dalsaso

Il 15 gennaio 2009 rimane nella storia dell’aviazione per la scelta del comandante Chesley “Sully” Sullenberger di aver pensato che Hudston è la soluzione fosse l’unico modo salvare il suo Airbus A320-214. L’atterraggio sul fiume Hudston ha salvato la vita ai 150 passeggeri e 5 membri dell’equipaggio del volo Cactus 1549.

L’aspetto che ci interessa mettere in evidenza riguarda le comunicazione tra il comandante ed il controllore di volo (registrazione rilasciata dalla FAA).

Come si può sentire entrambi, nonostante la gravità della situazione (l’aereo aveva perso la spinta di entrambi i motori per la collisione con uno stormo di uccelli) il tono dei due rimane molto calmo, segno di una preparazione di alto livello.

Nella registrazione si sente che il comandante, una volta compreso che non sarebbe riuscito a rientrare all’aeroporto a La Guardia, comunica la sua idea di utilizzare il fiume Hudston. Il controllore di volo pur dicendo “ok” non sembra aver ascoltato queste parole e gli propone, come da procedura, un aeroporto alternativo (Teterboro). lo stesso pilota, forse anche lui stesso sorpreso dalla sua stessa idea, segue per alcuni secondi le nuove indicazioni del controllore di volo, salvo poi verificare l’impossibilità di atterrare a Teterboro.

Anche la sua successiva comunicazione di provare ad atterrare sul fiume Hudston sembra non essere ascoltata dal controllore di volo che prosegue nella sua procedura. È un fonte terza che rispondendo alla comunicazione del controllore gli dice d’aver capito che il pilota del volo in difficoltà ha comunicato di aver intenzione di atterrare sul fiume.

Cosa ci suggerisce questa parte della vicenda: che quando all’interno di situazioni di emergenza viene data una comunicazione del tutto inattesa si rischia di sentirla, ma non di ascoltarla (come sembra aver fatto il controllore di volo), ma anche chi ha prodotto questa idea inattesa (il pilota) è indotto a rientrare nelle più rassicuranti procedure che gli vengono suggerite.

Si può pensare che un altro motivo che ha indotto il controllore a non ascoltare la parola “Hudston” è il fatto che la stessa è stata pronunciata dal pilota mantenendo il tono di voce usuale. Ciò ricorda che durante un’emergenza anche il cambiamento del tono della voce è importante per dare peso alle parole pronunciate.

Contenuti ed immagini nella comunicazione

Contenuti ed immagini nella comunicazione

Contenuti e immagini nella comunicazione

di Antonio Zuliani

Uno degli aspetti importanti è che contenuti ed immagine nelle comunicazione siano coerenti e che i messaggi positivi debbano essere sorretti da immagini attraenti. Visto che è utile imparare da quelli che a noi sembrano dei veri propri errori, vediamo il video distribuito dal Ministero della Salute (“cinque punti chiave per alimenti più sicuri”). Video messo a punto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, per diffondere i più corretti comportamenti per coloro che devono manipolare gli alimenti.

La scelta dell’animazione.

La forma scelta è quella del film di animazione. Guardandolo colpiscono tre aspetti comunicativi, legati alle forme grafiche scelte, decisamente curiosi nella descrizione dei microrganismi, presentati suddivisi in tre categorie. Abbiamo i buoni, i cattivi e quelli patogeni, definiti come pericolosi. Non ci soffermiamo sul contenuto del messaggio, bensì sulle forma grafica che lo accompagna e che dovrebbe rafforzarlo. In questa direzione ci si aspetterebbe una valorizzazione simbolica dei microorganismi buoni rispetto a quelli pericolosi, ma le cose non sono proprio così. Vediamo perché:

  • i microrganismi buoni sono graficamente piatti, grigi, annoiati nel loro “salire in cielo”; senza alcuna attrazione.
  • I microorganismi patogeni sono disegnati come colorati frequentatori di una discoteca, nella quale decisamente si divertono.
  • Inoltre i microorganismi patogeni sono veramente carini nel loro corteggiamento reciproco. D’altra parte se devono riprodursi meglio che lo facciano sulla base di un’attrazione e di un corteggiamento reciproco, come mostra il video.

Conclusioni

Riassumendo: il bene è scialbo e noioso e il male allegro e sentimentale. Mi chiedo se ci troviamo di fronte a un errore di comunicazione dato da un linguaggio grafico che sembra contraddire quello contenutistico. Oppure gli autori pensino veramente che il male sta nel divertimento (e da questo punto di vista la discoteca è l’emblema del “male”) e che il bene debba necessariamente essere fonte di noi? Riteniamo che la comunicazione che ha lo scopo di suggerire comportamenti utili per la saluta debba essere sorretta da immagini con alcune caratteristiche. Devono essere calde e colorate per far leggere positivamente il messaggio utilizzando linguaggio e forme grafiche condivise con i destinatari. Da questo punto di vista contenuti ed immagini nella comunicazione presentata dal video esaminato ci appaiono dissonanti rispetto a questo scopo.

Sipario

Sipario

Sipario

di Antonio Zuliani

Sipario esempio letterario che riprende alcuni dei concetti centrali ai processi decisionali. Lo troviamo nella vicenda che viene raccontata in “Sipario, l’ultima avventura di Poirot”. Romanzo scritto da Agatha Christie durante la Seconda Guerra Mondiale, ma pubblicato solamente nel 1975, che narra della decisione dell’investigatore, ormai vecchio e ammalato, di uccidere un uomo.

Due domande sono per noi interessanti: perché il paladino della giustizia arriva a commettere un delitto? Perchè il capitano Hastings, amico e collaboratore di Poirot, pur messo sulla giusta pista non arriva a comprendere la verità?

Poirot omicida.

Alla prima domanda si può rispondere per il fatto che Poirot incontra il criminale più raffinato e subdolo della sua carriera: Stephen Norton. L’investigatore belga attribuisce a Norton almeno 5 omicidi, non direttamente commessi da lui, ma da lui provocati con l’uso della parola. Norton non uccide e quindi non può essere incriminato, ma provoca questo comportamento negli altri facendo leva su alcuni comuni meccanismi psicologi che tutti viviamo.

Un’interpretazione.

Tutti noi proviamo impulsi aggressivi, fintanto omicidi, ma ci tratteniamo dal farlo perché la volontà, l’etica, la morale ci distolgono dal metterli in pratica. Per quanto bene educati e ben orientati a una vita di relazione, inconsapevolmente, viviamo emozioni ben diverse. Spesso improntate a preconcetti, alla sopraffazione e alla conquista delle cose che ci piacciono, a scapito di qualunque rivale incontriamo. Quello che ci salva è la ragione e la capacità che abbiamo di scegliere.

Norton si guarda bene dal tentare di mettere in discussione questi principi e questi meccanismi difensivi, se lo facesse arriverebbe a rafforzarli e il suo intento di provocare un omicidio sarebbe vanificato. No, più sottilmente agisce sulla barriera di autocontrollo. Fa vedere come la cosa sarebbe possibile, certamente esecrabile, ma possibile. In questo modo diviene anche plausibile a fronte delle malefatte della vittima e del sollievo che ne avrebbero, dalla sua scomparsa, altre persone.

Così facendo la persona si trova gradatamente coinvolta nel pensiero che, alla fin fine, il suo gesto ha una sua legittimità, se non addirittura una sua punta di eroismo. Non importa se dovrà pagare il prezzo che la società gli assegnerà come omicida. Come quando induce Margaret Leichfield a pensare che se avesse ucciso il padre avrebbe liberato le sorelle da quella specie di ergastolo alle quali le stava condannando.

Certamente si tratta di un racconto estremo, come estremo è il gesto Poirot di “giustiziare” il colpevole di queste nefande influenze. Ma rimane il fatto che la parola, anche la parola di ognuno di noi, ha un grande potere nel condizionare il comportamento. Ma come ha fatto Poirot a scoprire un assassino così “invisibile”? Semplicemente ponendosi una domanda: “nessun uomo normale può affermare di aver conosciuto 5 assassini”. Doveva esserci una spiegazione e per cercarla si reca proprio dove il sospettato risiede per l’estate e osserva.

La comunicazione della sicurezza dai bit all’inclusione

comunicazione-inclusivaLa comunicazione della sicurezza dai bit all’inclusione

di Antonio Zuliani

La comunicazione relativa ai temi della sicurezza sul lavoro deve necessariamente aggiornare metodi e strategie all’evoluzione della sensibilità sociale e alla presenza di lavoratori provenienti da realtà culturali diverse. L’articolo affronta il concetto di comunicazione proponendo una breve è panoramica della sua evoluzione dagli anni ’40 ad oggi. Andando dalla comunicazione uni-direzionale e quella inclusiva.

Tutto nella difficoltà di uno scritto breve e con la complessità di fornire una definizione di comunicazione perché l’uomo è un essere comunicante e, dunque, comunicazione riguarda la totalità della sua vita e delle sue attività.

Esattezza, precisione, efficacia.

Il primo modello si basa sul lavoro di Clayde Shannon e Warren Waever del 1949. Per loro l’informazione è un dato da trasportare da un punto ad un altro di un canale e quindi la loro attenzione è quella di farlo con la massima esattezza, precisione ed efficacia.

Da questo punto di vista l’attenzione principale si pone sul messaggio e sulla necessità di ridurre l’incertezza nel trasmetterlo. Ecco allora che vengono sviluppate una serie di formule matematiche per misurare le quantità di informazione (bit) necessarie a fare in modo che il messaggio sia trasmesso e ricevuto senza incertezze.

La minaccia fondamentale rilevata in questo modello è quella del “rumore”, elemento di disturbo che può deformare il messaggio facendo si che quello ricevuto sia diverso da quello inviato. Ecco allora che l’attenzione si centra sulla ridondanza che prevede una serie di ripetizioni e i relativi sistemi di controllo (ad esempio lo spelling).

Feedback

Il limite della teoria illustrata è quello di vedere la comunicazione come un processo lineare e di non tener conto della bidirezionalità e del feedback.

Ossia questo modello, pur utile per i suoi scopi pragmatici e tecnici, non descrive la complessità dei fenomeni della comunicazione umana, che è sempre bidirezionale: prevede, cioè, il feedback.

L’introduzione di questo concetto mostra come ogni comunicazione contiene la possibilità di una verifica di efficacia attraverso la verifica di cosa ha compreso l’interlocutore. Da questo punto di vista non ci sono cattivi ascoltatori, ma cattivi comunicatori

Il significato: segni, significati, interpretazione.

Un’ulteriore evoluzione la possiamo vedere nel fatto che un dato può essere trasmesso da un punto all’altro nello spazio solo a patto di affrontare un elemento fondamentale della comunicazione umana: il significato. Ovvero il senso che vogliamo esprimere e che vorremmo fosse compreso.

La lingua è lo strumento principale attraverso il quale comunichiamo, ma esistono anche altri linguaggi come quello dell’arte e del cinema. Così, ogni qual volta utilizziamo una parola comunichiamo un concetto, un’idea, un’immagine, ma poi quello che conta è il significato attribuito a quell’idea o a quell’immagine da chi ascolta quella parola. Se i significati non sono condivisi non vi è comunicazione.

Dal punto di vista della semeiotica (la disciplina che si occupa di studiare i segni e il loro uso) è necessario che le persone posseggano la stessa “enciclopedia”, perché solo allora sono in grado di condividere. Nella consapevolezza, comunque, che essa stessa è in costante rielaborazione.

In altri termini il significante (cioè l’immagine acustica o l’immagine scritta) porta a un significato e a un concetto. Ecco allora che chi riceve una comunicazione deve sempre attuare un processo di interpretazione perché i segni non sono portatori di un unico semplice e immediato significato.

La normalità non è quella in cui il mittente e il destinatario condividono esattamente lo stesso codice, bensì il contrario: la comunicazione consiste nello sforzo di comprendersi, di interpretare correttamente i segni. L’attività a suo modo rischiosa, in cui nulla è dato per scontato né garantito.

La comunicazione come “comportamento” e interazione.

Un’ulteriore evoluzione la dobbiamo agli studi di Bateson che considera gli organismi come dei sistemi aperti, la cui esistenza è sempre in relazione tra loro e con l’ambiente. Secondo questo approccio la comunicazione implica “collaborazione degli attori”, ovvero delle persone che entrano in contatto tra loro e comunicano, mediante “una gestione comportamentale coordinata della co presenza” .

L’attenzione quindi va posta sul modo in cui gli interagenti si comportano per comunicare durante la comunicazione, di qui la valorizzazione della comunicazione non verbale.

Ecco allora che comunicando noi emettiamo una certa quantità di informazioni, ma contemporaneamente metacomunichiamo il tipo di rapporto che vogliamo instaurare con l’interlocutore. La comunicazione non è riducibile a un semplice atto, ma è il sistema per mezzo del quale gli individui si mettono in relazione.

La comunicazione come redazione e come “costruzione di realtà”.

Un ultimo passaggio, che a ben vedere ingloba tutti quelli precedenti, considera che ogni fenomeno comunicativo chiama in causa l’intero modo di vivere degli individui che ne sono protagonisti. In altri termini le pratiche comunicative contribuiscono a costruire una realtà comune condivisa e intersoggettiva.

La comunicazione ha che fare con le modalità di relazionarsi agli altri; essa non consiste più solo nel trasferimento di informazioni, quanto nel processo di condivisione di sistemi simbolici e nei modi di rapportarsi; la comunicazione contribuisce a costruire, ma anche a mantenere e, in certi casi, modificare la realtà sociale e culturale nella quale siamo immersi nella vita quotidiana, con i suoi rituali, le sue routine, le sue regole. In questo senso la comunicazione entra a far parte della cultura condivisa.

Allora si raggiunge una riformulazione dell’assioma che dice “non è possibile non comunicare” trasformandolo in “è impossibile non comunicare inter culturalmente”, perché l’altro non è più altrove, ovvero perché vi sono continue occasioni di entrare in contatto con culture differenti.

Questo aspetto può essere affrontato sotto due prospettive diverse. La prima, di origine statunitense, pone l’accento sull’analisi delle difficoltà culturali che manifesta una persona nel comprendere una comunicazione ed è finalizzata ad adottare le strategie più efficaci per far “passare” la comunicazione.

Il secondo modello centra l’attenzione sul dialogo e pone l’accento sul riconoscimento dell’altro come interlocutore. La relazione che ne scaturisce è paritetica ed implica un processo negoziale fra i presupposti culturali delle persone che si incontrano, finalizzato a valorizzare i diversi punti di vista e, a partire dal proprio, si pone alla ricerca di punti di accordo.