Aggressività

Aggressività

L’aggressività fa parte della gamma dei comportamenti umani. Si tratta di un fenomeno complesso. È una molla per la curiosità, la crescita e l’evoluzione. Si manifesta nella protezione dei figli e più in generale di una persona cara in caso pericolo. A volte anche solo per un’ingiustizia o un’azione sgarbata.

Non è sempre facile incanalare l’aggressività verso obiettivi di crescita, tanto che a volte sfocia in atteggiamenti e comportanti socialmente dannosi.

Quello che stiamo vivendo con l’arrivo della pandemia ne è una dimostrazione: di come l’aggressività tra le persone stia determinando spaccature nella stessa società.

Aggressività: tre proposte

Certo non possiamo distribuire nell’aria ossitocina e vasopressina, due regolatori dell’aggressività. Né possiamo regolare con un reostato le quantità di elettricità che colpisce l’amigdala, uno dei centri cerebrali principali delle reazioni aggressive.

Ci limitiamo a indicare tre possibilità. Esse nascono dell’esperienza che stiamo conducendo a fianco di aziende e organizzazioni che si stanno ponendo l’obiettivo di affrontare le conseguenze negative della montante aggressività che si manifesta anche all’interno dei gruppi di lavoro. Sui modi concreti per realizzarli, le differenze dipendono dalle singole realtà; ci si può lavorare.

Spazio all’empatia

Se stiamo sperimentando l’aggressività, al contempo viviamo anche una situazione di empatia.

Tutti coloro che si sono protetti per proteggere. Che hanno continuato nei lavori che hanno permesso all’Italia di non fermarsi: questi ci hanno permesso di respirare empatia. Questa é la capacità di metterci nei panni dell’altro. Di vedere, anche se non lo condividiamo appieno, il mondo dal suo punto di vista e di farlo sentire compreso.

Valorizziamo tutto questo attraverso azioni di ringraziamento, attraverso la comunicazione interna all’azienda fino alla decisione di agire collettivamente azioni di questo tipo.

Promozione di una cultura della condivisione

La cultura di un gruppo e di un’organizzazione si esprime anche attraverso in modo in cui narra le cose che accadono. Questo perché la cultura è il frutto dell’elaborazione che tutti sono chiamati a compiere rispetto a quello che stanno vivendo. Ecco allora la proposta di trovare tempi e luoghi per parlare assieme dei vissuti della pandemia. Per darne una lettura il più condivisa possibile. Condividere, parlare del significato può aiutare a trovare il limite, regole condivise e, quindi, più efficaci.

Presidiare la comunicazione

Il vissuto di incertezza è una significativa fonte di aggressività che anche questa pandemia ci dà.

Proprio per questo è importante presidiare la comunicazione nel senso di porsi come fonte di informazioni stabili e credibili. Con uno stile sempre attento ai vissuti  che non vanno criticati o riportati solo a rigidi protocolli. Se ogni violazione o anche una semplice variabilità nei comportamenti viene solo stigmatizzata o criticata, si rischia di ottenere un effetto controproducente. Ad esempio, favorisce la spinta a nascondere le violazioni alle norme, invece di capirne le ragioni. Questo è uno dei motivi per cui i tanto citati near miss non vengo sufficiente evidenziati nelle organizzazioni.

Nulla di nuovo

Nulla di nuovo in fondo. Ma la pandemia ci sta mostrando che l’aggressività esiste. Evidenziare le conseguenze ci può indurre a trovare assieme le strategia di contenimento.

Le immagini fanno la differenza

Le immagini fanno la differenza

L’immagine ha una forza comunicativa più efficace rispetto alle parole, perché richiede un minor intervento delle funzioni cognitive superiori, ma le immagini fanno la differenza. Ciò significa che la scelta dell’immagine da utilizzare è di fondamentale importanza.

Per comunicare efficacemente, occorre quindi che l’immagine sia riconosciuta senza difficoltà e senza dover fare intervenire i processi cognitivi superiori. In questo modo, la comunicazione diventa diretta ed efficace. Non so, ma apre l’interesse e la disposnibilità per gli altri contenuti comunicativi.

 Le due Madonne

Le immagini fanno la differenzaUn esempio di questo principio lo troviamo in due madonne lignee del 1270.

Dall’introduzione del Cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero Romano fino all’invenzione della stampa, l’arte sacra europea fu usata per trasmettere i concetti biblici al popolo analfabeta. Era dunque un’arte che doveva essere riconosciuta dalle persone dei ceti più bassi.

Esaminando le due madonne lignee, una proveniente da Arezzo e una da Costanza, si possono notare enormi differenze. All’epoca, il territorio di Arezzo fu colpito da una carestia, mentre Costanza prosperava grazie al commercio del lino. Nell’aretino, la realtà di tutti i giorni era composta da persone che soffrivano a causa della scarsità di cibo a differenza degli abitanti di Costanza.

Forse questo è uno dei motivi delle dissomiglianze tra le due statue lignee. Presumibilmente gli artisti che hanno scolpito le due madonne hanno voluto rappresentare una realtà in cui i proprio concittadini potessero riconoscersi.

Dal ‘200 alla scienza

Questo esempio mostra come le immagini fanno la differenza se si vuole attirare l’attenzione. Sappiamo che l’attenzione viene attivata da uno stimolo semplice che fa scattare i processi automatici dell’identificazione. Quando l’attenzione viene attivata attraverso questo processo identificativo è più facile trasferire anche i contenuti.

Se i due artisti del ‘200 hanno inconsapevolmente utilizzato questa strategia, oggi le scienze psicologiche mettono a disposizione strumenti più raffinati per scegliere le immagini. Così le immagini fanno la differenza.

Come dire cosa fare

Come dire cosa fare

Scrivere procedure è un’azione di qualità

L’obiettivo principale di una procedura scritta è quello di conquistare l’attenzione del lettore, farsi legere e comprendere, non di indurlo passivamante a fare qualche cosa.

La ascelta delle parole è fondamentale perché il modo di scrivere una procedura, agli occhi di chi la legge, esprime anche il suo modo di essere e  il modo con il quale l’azienda intende approcciarsi ai problemi.

Su questo argomento abbiamo pubblicato un articolo all’interno del numero di aprile 2020 della rivista Ambìente&Sicurezza sul Lavoro

Per scaricare il numero della rivista

Commettere un errore

Commettere un errore

Commettere un errore

di Antonio Zuliani

Nella vita di un’azienda o di una qualsiasi organizzazione può accadere, anche se la cosa non è augurabile, di commettere un errore. La soluzione che viene più facilmente alla mente può essere sintetizzata con la frase: “speriamo che nessuno se ne sia accorto!”.

Strategia molto pericolosa perché se qualche cliente dovesse accorgersi della cosa o semplicemente la notizia trapelasse si andrebbe incontro a una perdita di credibilità e la reputazione dell’azienda ne risentirebbe profondamente. Da quel momento ogni prodotto o servizio sarebbe visto con sospetto, con conseguente disaffezione del cliente.

Comunicare l’errore.

Per questo motivo è consigliabile comunicare la cosa il più rapidamente possibile a tutti coloro che sono coinvolti. In questo modo, come affermano Naquin e Kurtzberg, si otterrà un duplice risultato: presentarsi come un’organizzazione in primo luogo attenta ai propri clienti e in secondo luogo capace di individuare immediatamente gli errori, di scoprirne la radice, in sintesi di avere il controllo della situazione. Il focus, in questo caso, sta nell’identificazione delle persone da informare, perché inviare questa notizia a persone che non ne siano interessate, in quanto non coinvolte nell’errore, avrebbe il risultato di attrarre l’attenzione sull’evento negativo anche se non importante per loro, lasciando una sgradevole (e non approfondita perché la cosa non è di interesse) riguardo a quell’organizzazione.

L’effetto delle comunicazione.

Informando invece i diretti interessati, l’effetto sarà più facilmente positivo. Ma è fondamentale, all’interno di questa comunicazione non commette l’errore di attribuire la ragione di quanto è avvenuto a cause esterne, anche se questo potrebbe apparire una scusante efficace, del tipo “non è colpa mia!”. Seguendo questa strategia si rischia di fornire l’impressione di non avere la padronanza di tutti i processi, di non avere la capacità di controllo, per cui non c’è la garanzia che non si presentino in futuro altri problemi. Inoltre, come scrivono Lee, Petterson e Tiedens, se la cosa può inizialmente distrarre l’attenzione dall’errore, successivamente potrebbe nascere il sospetto che si stia cercando di nascondere mancanze interne e ciò si traduce facilmente nell’idea che l’organizzazione voglia, in questo modo, ingannare i suoi clienti.

Molto meglio sottolineare, attraverso l’informazione, che c’è la capacità di controllare il problema e che si è in possesso di una strategia per risolverlo e per fare in modo che non si possa più ripresentare. Commettere un errore è naturale, nasconderlo può essere un errore ancora più grande.

Bibliografia.

Lee F., Petterson C. & Tiedens L.A. (2004). Mea culpa: predicting stock prices from organisational attributions, Personality and social Psychology Bulletin, 30, 1636-1649

Naquin C.R. & Kurtzberg T.R. (2004). Human reactions to technological failure: how accidents rooted in technology vs. human error influence judgments of organisational accountability. Organisational Behaviour and Human decision processes, 93, 129-141