La parole non sono mai neutrali

La parole non sono mai neutrali

Le parole non sono mai neutrali, ognuna di esse implica scenari semantici capaci di evocare immagini ed emozioni molto importanti in chi le ascolta. Questo è un tema che abbiamo spesso affrontato nel nostro lavoro, focalizzato sulla sicurezza sul lavoro e sulle risposte delle persone alle situazioni di emergenza, riscontrando come linguaggi troppo specialistici creano vissuti molto diversi tra chi parla e chi ascolta.

Le parole non sono mai del tutto neutrali; ogni parola ha un suo peso, anche quelle che sembrano solo “tecniche”.

Le parole di oggi.

Proprio in questi giorni questa realtà è sotto gli occhi di tutti. Sui media compaiono parole, tante parole, e con frequenza sempre maggiore, di cui non sappiamo bene il significato. Occorre chiedersi cosa suscita in tutti noi sentire, e a volte pronunciare, parole come guerra, terza guerra mondiale, bomba termonucleare e così via.

Immagini difficili da collocare perché, per nostra fortuna, apparteniamo a una generazione che non ha fatto esperienza di cosa significhino. Altre parole evocano scenari che ci appaiono più a fuoco. La parola Chernobyl ricorda la relativa fuga radioattiva che sta richiamando alla memoria una paura vissuta. Non una paura qualsiasi, ma, lo scrivevo allora, che evocava ed evoca scenari inquietanti perché le “radiazioni” sono invisibili. Di fronte all’invisibile ci si sente particolarmente impotenti, ma “occorre” fare qualche cosa. Ecco allora la ricerca di approvvigionarsi di compresse di iodio. Non importa se la loro efficacia è dubbia: sento che ho fatto qualche cosa.

Parole: tra paura e angoscia.

 Una parola che evoca paura, lo sa bene chi si occupa di sicurezza, attiva delle reazioni positive, perché la paura è una sorta di segnale di allarme che spinge a reagire. Senza questa attivazione si rischia di rimanere inermi di fronte a una fonte di pericolo.

Il nostro cervello è costantemente alla ricerca di risposte agli stimoli che gli giungono (e quindi anche alle parole) e per farlo utilizza l’esperienza che ne ha. Altrimenti le stesse creano una confusione difficile da tollerare.

Oggi la difficoltà sta proprio qui: come si collocano parole che evocano scenari di cui non abbiamo esperienza. Come si trovano utili e “ragionevoli” risposte?

Solo poche settimane fà stavamo deprecando la troppa facilità con la quale gli “esperti” di turno parlavano della pandemia. Ora gli esperti sono cambiati, ma la scarsa considerazione per l’angoscia che le parole possono creare non è cambiata.

Se la paura, come detto, suscita un movimento sano verso la soluzione dell’evento che la determina, l’angoscia no! Da un lato suscita blocca e congela ogni movimento attivo verso la soluzione. Sembra evocare piuttosto un mitico “speriamo che io me la cavo” (frase emblematica con la quale un maestro napoletano fotografava la reazione dei suoi scolari di fronte al degrado della città). Dall’altro lato suscita una disperazione che spinge ad accattare ogni soluzioni che la cancelli.

La soluzione non è mai nella censura delle parole, ma occorre trovare il modo per aiutare tutti a capirne il significato, quel significato emotivo che suscitano in tutti noi. Più siamo spinti a nasconderlo, a pensare che riguardi una nostra personale debolezza, e più diventa pesante da vivere.

Condividere il significato della parole.

 Quello di cui abbiamo tutti bisogno è di trovare modo di far emergere tutti gli scenari emotivi che ognuna di queste parole suscita in noi. proprio perché le parole non sono mai neutrali. Lo dobbiamo a noi stessi per arrivare a soluzioni che non seguono solo l’onda delle emozioni. Lo dobbiamo ai nostri figli che sono sempre più spaventati e spinti a una naturale regressione emotiva e cognitiva. Lo spazio è quello dell’incontro, della condivisione. Attivarlo non è facile, ma lo dobbiamo alla speranza per il futuro.

Come fare. Intanto parlandone, tra di noi, in famiglia, tra amici. In attesa che il mondo della politica comprenda che tutti noi non abbiamo solo bisogno di strutture e servizi, ma anche di luoghi di incontro che non possono essere delegati solo all’utilizzo dei social. Parlarne ci fa sentire meno soli in specie se qualcuno ci aiuta a cercare assieme delle soluzioni condivise. Facile? No, ma oggi più che mai necessario. Il nostro cervello impara dall’esperienza.

Affinché la paura non diventi angoscia

Affinché la paura non diventi angoscia

Di fronte alle notizie che oggi (mercoledì 29 gennaio 2020) possediamo sul coronavirus occorre operare affinché la paura non diventi angoscia. La paura è un’emozione sana perché spinge chi la prova all’azione. Ma per attivarsi occorre sapere cosa fare, altrimenti subentra un sentimento ben diverso: l’angoscia, anticamera del panico.

Cosa fare, dunque, affinché la paura non diventi angoscia? Domanda importante anche perché a oggi i dati statistici non ci fanno pensare a scenari apocalittici. Ecco alcune indicazioni derivanti dalla nostra esperienza professionale.

 Il ruolo delle istituzioni

Il primo passo è di fornire alle persone un punto di riferimento credibile e affidabile. Questo è il compito principale delle istituzioni pubbliche e sanitarie in particolare. Compito oggi difficile per due motivi. L’istituzione ha perduto la sua autorevolezza, le stesse figure sanitarie hanno visto intaccata la propria credibilità e il proprio ruolo. Lo stesso fenomeno delle aggressioni verso i sanitari ne è una dimostrazione.

In secondo luogo, i due aspetti sono connessi, le fonti d’informazione si sono moltiplicate e la prima che arriva trova più spazio perché fornisce le risposte che, come vedremo sotto, le persone cercano. Qualsiasi essa sia è una risposta che rassicura la nostra mente, molto più spaventata dall’incertezza che dal contenuto dell’informazione.

 Un’informazione tempestiva

Di qui il secondo aspetto: la tempestività. Ogni evento nuovo, come questa pandemia, suscita la necessità di avere nel più breve tempo le informazioni. Il nostro cervello mal sopporta l’incertezza, ecco perché si cercano subito notizie che aiutino ad avere un quadro mentale ordinato. Cosa, come abbiamo già scritto ben difficile in questo momento.

Quando le istituzioni, anche per una comprensibile prudenza, non sono tempestive le persone si costruiscono da sole un quadro mentale dell’accaduto. Modificarlo successivamente sarà difficile. Ecco che è preferibile un’informazione ufficiale tempestiva anche se non del tutto completa a un’esitazione che lascia spazio a quelle che poi definiamo fake news.

 Una risposta alle domande

Le persone hanno bisogno primariamente di una risposta alle domande e, successivamente, di una spiegazione. Purtroppo constatiamo ancora una volta come gli esperti che parlano dell’argomento prediligano dilungarsi in ragionamenti complessi per poi, molto spesso, eludere la domanda centrale. In questa fase i quesiti centrali sembrano essere: questo virus è pericoloso anche per me?  Se vogliamo essere ascoltati occorre prima rispondere a questo tipo di domande e poi argomentare la risposta.

 Un linguaggio semplice

L’informazione è efficace solo se viene compresa. Per farlo occorre saper utilizzare il linguaggio più semplice possibile. Ecco allora che ogni parola tecnica, in lingua straniera, ogni barocchismo linguistico rendono il messaggio difficile da comprendere. In questo occorre ricordare il nostro cervello fa molta fatica a ragionare sulla base di dati statistici. L’autorevolezza di cui abbiamo parlato nasce dall’essere percepiti come fonte rassicurante e non dal linguaggio spesso iniziatico che troppi esperti utilizzano.

Sono solo poche indicazioni di base affinché la paura non diventi angoscia.

 

Antonio Zuliani