Progettare il post smart working

Progettare il post smart working

Una delle conseguenze della prossima fine dello Stato di Emergenza riguarda la possibilità di prendere delle decisioni relative all’organizzazione del lavoro. Ci riferiamo a un aspetto che ha caratterizzato questi ultimi mesi: lo smart working.

Un modo di operare che ha avuto effetti positivi su molti piani. Ha certamente contribuito alla lotta al virus. Ha permesso a molte famiglie di trovare un equilibrio tra questo modo di lavorare e la gestione della Didattica a Distanza dei figli. Questo spiega il vasto gradimento che tante indagini stanno evidenziando a favore del mantenimento dello smart working anche per il futuro. Agli interrogativi già posti in un post precedente, desideriamo porre l’attenzione sull’eventuale ritorno in presenza dallo smart working. Nello specifico desideriamo soffermarci sul tema della ricomposizione dei gruppi di lavoro. Tema che occorre affrontare per rendere questo ulteriore passaggio utile per l’essenziale benessere del personale.

Chi rientra

La decisione relativa a quali collaboratori sono chiamati a rientrare nel luogo di lavoro deve essere la più condivisa possibile. Questo per evitare conflitti interni o dare l’impressione di creare disparità. Vi saranno, infatti, collaboratori che attendono positivamente questa decisione e altri che preferiscono continuare a lavorare da casa.

Come si rientra

Il lavorare a distanza ha, di fatto, minato la compattezza dei gruppi di lavoro. Una compattezza che non avviene solo perché i collaboratori si ritrovano all’interno di uno stesso ambiente. Lavorando da casa sono venuti a mancare tanti piccoli segnali e rituali che caratterizzano il funzionamento del gruppo stesso. Piccoli strumenti però di grande importanza: dalla pausa caffè, ai momenti di incontro informali. Si tratta di momenti che segnalano non solo il legame all’interno del gruppo, ma che aiutano a risolvere anche tante piccole difficoltà e incomprensioni tra le persone.

Incomprensioni che la formula del lavoro a distanza può aver accresciuto. Le video conferenze non permettono quelle essenziali fasi di rapporto informarle che precedono e seguono ogni riunione in presenza. Per non dimenticare come le comunicazioni via mail, pur scritte con le migliori intenzioni, possano risultare spesso di difficile comprensione e di facile fraintendimento. In questo contesto ci riferiamo al fatto che parole o frasi, poco significative per chi le scrive, possono creare reazioni negative in chi legge. Il tutto con una scarsa possibilità di comprensione più chiara. Sappiamo tutti come una frase acquisti il suo significato non solo per le parole che contiene, ma anche per il modo con il quale sono pronunciate.

Alcune attenzioni

Se, come riteniamo, l’equilibrio e il benessere del gruppo di lavoro è un valore per l’azienda, i due aspetti sopra segnalati vanni affrontati.

In primo luogo con un’opera di chiarezza e condivisione relativa alla scelta di chi rientra e chi rimane in smart working. Programmando modalità e anche riti di rientro che siano finalizzati a favorire, con il tempo necessario, la ricucitura delle relazioni tra i collaboratori.

Si tratta di progetti da focalizzare azienda per azienda, ma che nella nostra esperienza possono e devono essere messi in programma per un equilibrato futuro dell’azienda stessa.

Oltre lo Smart Working

Oltre lo Smart Working

Nel febbraio di due anni fa il Covid19 ha fatto la sua comparsa anche in Italia, dopo essere stato segnalato il 31 dicembre 2019 a Wuhan. Il suo espandersi è stato veloce e vorticoso tanto che l’8 marzo è stato decretato il primo lockdown nazionale.

A ognuno è stato chiesto di modificare, anche radicalmente, le proprie abitudini quotidiane. Indubbiamente vi sono stati errori nelle scelte e nelle relative comunicazioni. Cose già viste e in parte inevitabili di fronte una situazione che assomigliava più a una crisi che a un’emergenza. L’emergenza chiede risposte immediate, ma comunque da attivarsi all’interno di una gamma di strategie note e codificate. Mentre la crisi richiede la stessa celerità nelle risposte senza però avere soluzioni già note da applicare. E la pandemia ha avuto la caratteristica di una crisi.

Le prime reazioni

 Come spesso accade di fronte a situazioni critiche le persone coinvolte mettono in campo il meglio nell’idea che “assieme se ne uscirà”. Aspetto che bene abbiamo visto negli slogan, nel cantare dai balconi e nell’accettare le indicazioni governative. Si tratta di aspetti che si sono affievoliti con quella che è stata chiamata “seconda ondata”. Questo perché il riemergere della pandemia ha smentito le attese verso una facile e veloce soluzione del problema.

Il modello Smart Working

 Il mondo del lavoro ha affrontato la pandemia mettendo il campo velocemente il modello di lavoro a domicilio, che nel nostro paese ha assunto il neologismo di Smart Working.

Una modalità di lavoro che ha trovato una grande disponibilità e assenso da parte dei lavoratori. Una soluzione che aveva molti aspetti positivi: la protezione dal virus, la possibilità di gestire i figli alle prese con la didattica e distanza, la riduzione dei tempi di viaggio. Non a caso ogni indagine realizzata nei mesi scorsi ha visto adesioni positive verso lo Smart Working.

Un progetto per il futuro

 La preventivata fine della pandemia pone delle domande nuove, quali: il quadro di adesioni allo Smart Working rimarrà uguale? O compariranno disagi che andranno ben al di là degli aspetti normativi e regolamentali del lavoro a domicilio?

Se abbiamo fronteggiato la pandemia mettendo in campo soluzioni inventandole via via che apparivano più idonee, ciò non può accadere nell’affrontarne a fine. Qui abbiamo conoscenze utili a non essere sorpresi e per trovare strategie utili per un’efficace gestione del nuovo rapporto con il lavoro che l’esperienza dello Smart Working ci ha permesso di sperimentare.

Da parte nostra desideriamo aprire un luogo di dibattito proprio sul tema dello Smart Working attraverso post nel sito, la rivista PdE e interventi sui media. Attendiamo i vostri contributi.

Aggressività

Aggressività

L’aggressività fa parte della gamma dei comportamenti umani. Si tratta di un fenomeno complesso. È una molla per la curiosità, la crescita e l’evoluzione. Si manifesta nella protezione dei figli e più in generale di una persona cara in caso pericolo. A volte anche solo per un’ingiustizia o un’azione sgarbata.

Non è sempre facile incanalare l’aggressività verso obiettivi di crescita, tanto che a volte sfocia in atteggiamenti e comportanti socialmente dannosi.

Quello che stiamo vivendo con l’arrivo della pandemia ne è una dimostrazione: di come l’aggressività tra le persone stia determinando spaccature nella stessa società.

Aggressività: tre proposte

Certo non possiamo distribuire nell’aria ossitocina e vasopressina, due regolatori dell’aggressività. Né possiamo regolare con un reostato le quantità di elettricità che colpisce l’amigdala, uno dei centri cerebrali principali delle reazioni aggressive.

Ci limitiamo a indicare tre possibilità. Esse nascono dell’esperienza che stiamo conducendo a fianco di aziende e organizzazioni che si stanno ponendo l’obiettivo di affrontare le conseguenze negative della montante aggressività che si manifesta anche all’interno dei gruppi di lavoro. Sui modi concreti per realizzarli, le differenze dipendono dalle singole realtà; ci si può lavorare.

Spazio all’empatia

Se stiamo sperimentando l’aggressività, al contempo viviamo anche una situazione di empatia.

Tutti coloro che si sono protetti per proteggere. Che hanno continuato nei lavori che hanno permesso all’Italia di non fermarsi: questi ci hanno permesso di respirare empatia. Questa é la capacità di metterci nei panni dell’altro. Di vedere, anche se non lo condividiamo appieno, il mondo dal suo punto di vista e di farlo sentire compreso.

Valorizziamo tutto questo attraverso azioni di ringraziamento, attraverso la comunicazione interna all’azienda fino alla decisione di agire collettivamente azioni di questo tipo.

Promozione di una cultura della condivisione

La cultura di un gruppo e di un’organizzazione si esprime anche attraverso in modo in cui narra le cose che accadono. Questo perché la cultura è il frutto dell’elaborazione che tutti sono chiamati a compiere rispetto a quello che stanno vivendo. Ecco allora la proposta di trovare tempi e luoghi per parlare assieme dei vissuti della pandemia. Per darne una lettura il più condivisa possibile. Condividere, parlare del significato può aiutare a trovare il limite, regole condivise e, quindi, più efficaci.

Presidiare la comunicazione

Il vissuto di incertezza è una significativa fonte di aggressività che anche questa pandemia ci dà.

Proprio per questo è importante presidiare la comunicazione nel senso di porsi come fonte di informazioni stabili e credibili. Con uno stile sempre attento ai vissuti  che non vanno criticati o riportati solo a rigidi protocolli. Se ogni violazione o anche una semplice variabilità nei comportamenti viene solo stigmatizzata o criticata, si rischia di ottenere un effetto controproducente. Ad esempio, favorisce la spinta a nascondere le violazioni alle norme, invece di capirne le ragioni. Questo è uno dei motivi per cui i tanto citati near miss non vengo sufficiente evidenziati nelle organizzazioni.

Nulla di nuovo

Nulla di nuovo in fondo. Ma la pandemia ci sta mostrando che l’aggressività esiste. Evidenziare le conseguenze ci può indurre a trovare assieme le strategia di contenimento.

Incertezza

Incertezza

Incertezza. È la condizione nella quale tutti ci siamo trovati fin dallo scoppiare della pandemia. Tante domande alle quali abbiamo scoperto di non avere una risposta, o non avevano abbastanza esperienza per provare che le risposte che avevamo fossero corrette.

L’esperienza vissuta

Le stesse forme della comunicazione pubblica hanno accentuato questa condizione di incertezza. Le notizie arrivavano alla spicciolata, di giorno in giorno, smentendosi spesso le une con le altre. All’inizio la pandemia era stata paragonata a una forma influenzale. Si muore anche di influenza, ma ciò ha contribuito a una banalizzazione che poi le immagini dei camion militari a Bergamo hanno drammaticamente spezzato. Infine, abbiamo subito un’eccessiva circolazione di informazioni (infodemia), talvolta non vagliate con accuratezza. Ciò ha reso difficile orientarsi per la difficoltà di individuare fonti affidabili.

Non tolleriamo l’incertezza

L’organismo umano non può tollerare troppa incertezza o stimoli eccessivi. Le categorie che utilizziamo per organizzare le percezioni e il pensiero ci aiutano a togliere di mezzo ciò che non è importante, per aiutarci a concentrarci su quello che conta. Questo avviene perché, attraverso l’attivazione dell’amigdala, mettiamo in campo una naturale cautela, per affrontare una situazione inedita o molto incerta. Di fronte a questa attivazione assumono una funzione importante le nostre conoscenze e le norme sociali. Si tratta di strumenti che ci aiutano a ridurre l’incertezza. Ci aiutano a prevedere quello che può avvenire e il  comportamento altrui. Forniscono stabilità e regolarità all’interazione sociale, semplificando i problemi computazionali e dunque facendoci risparmiare tempo e fatica.

Riflessioni

È ben vero che Lorenzo il Magnifico scriveva “Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Ma è anche vero che dubbio, ansia, paura e fobia sono l’accumulo dell’incertezza che il tempo carica sempre di più. Il rischio è che la lotta tecnica al visus lasci pesanti strascichi nel vissuto di incertezza collettivo. Oggi abbiamo bisogno di ritrovare una lettura condivisa del tempo che stiamo vivendo. Questo per evitare che episodi limitati di rivendicazione personali diventino il luogo di incubazione di una rottura. Una rottura anche dei fondamenti della sicurezza in azienda. Fondamenti che risiedono in una cultura collettiva e condivisa basata sulla fiducia verso le scelte relative alla sicurezza da parte di chi, anche in azienda, è preposto a compierle.

Due idee per affrontare l’incertezza

Solo due idee prima per concludere:

Dedichiamo del tempo per condividere con i collaboratori il senso di incertezza e per trovare risposte che attenuino l’aggressività insita in ogni contrasto di idee.

Ritrovare la centralità di una comunicazione che, come abbiamo scritto, punta alla leggibilità e alla comprensione dei messaggi e non all’estetica. Siamo pur sempre un Paese con il 28% di analfabeti funzionali. La condivisione delle idee ha alla base l’attribuire tutti lo stesso significato alle parole che utilizziamo. Anche questo diminuisce l’incertezza.

La sicurezza dell’IO

La sicurezza dell’IO

Durante questa pandemia ho pensato e sperato che l’esperienza vissuta fosse fonte di nuovi apprendimenti. Il sapere che il nostro cervello apprende dall’esperienza mi rassicurava in marito. Lo sperimentare come l’uscita dalla fase più acuta della pandemia fosse la conseguenza delle attenzioni e dei gesti di tutti, ci faceva sperare che questo ci avrebbe insegnato come analoga attenzione valesse anche per la sicurezza sul lavoro. Ciò all’interno di una visione di compartecipazione collettiva all’obiettivo e alle attenzioni per raggiungerla.

Ma le cose sono più complesse.

Quello che sta accadendo con le resistenze emerse attorno alla vaccinazione e all’adozione del green pass sta mostrando, però, anche un altro versante della questione. La rivendicazione di un diritto personale a considerare il proprio concetto di sicurezza superiore a quello collettivo. Un atteggiamento che avrà ripercussioni inevitabili anche sulla sicurezza sul lavoro nell’azienda. Ciò perché sempre più persone si sentiranno nel diritto  non aderire e rispettare le regole e i comportamenti indicate dalla norma e dall’azienda.

Perché è avvenuto questo? Perché questa tendenza è oggi fomentata da parte del mondo sindacale e politico? Per quale motivo una sicurezza collettiva, del noi, è sostituita da quella personale dell’Io.

Due ragioni su cui riflettere

Le ragioni possono essere tante e riteniamo utile discuterle.

Formuliamo due prime ipotesi di discussione con l’intento di aprire un dibattito in merito.

In primo luogo la pandemia ha evidenziato una tendenza, che esiste nella nostra cultura, che privilegia l’interesse del singolo su quello della sua stessa comunità di appartenenza. La pandemia ha evidenziato, attraverso il comportamento e la dedizione di molti, il meglio che c’era in noi. Ma anche le contraddizioni. Come accade di fronte a tutti le situazioni critiche.

Un secondo aspetto deriva dall’aver accentuate l’importanza della risposat tecnica alla pandemia, attraverso la pur corretta valorizzazione del vaccino.

Il vaccino è correttamente uno strumento forte nel panorama della risposta complessiva alla sicurezza contro il Covid. Ma se troppo enfatizzato arriva a sminuire il senso di tanti piccoli e decisivi gesti personali. Questo ha portato ad atteggiamenti significativi come la spinta a dismettere al più presto l’uso delle mascherine, dell’igiene delle mani, dell’evitare assembramenti eccessivi. Attenzioni alla sicurezza che vanno bel al di là della pandemia.

Sono solo due degli aspetti che hanno accentuato la tendenza a privilegiare il mettere al centro la visione personale di sicurezza a scapito di quella collettiva. La quale, inevitabilmente, chiede delle rinunce, la prima delle quali è di non ritenere di essere comunque è sempre nel giusto.

Un’apertura di riflessione. Affinché la ripartenza delle attività produttive non provochi tensioni e significativi arretramenti verso lo sforzo di realizzare una cultura della sicurezza solida e condivisa.

Discutiamone

e se fosse una scelta infelice

e se fosse una scelta infelice

In questi tempi di pandemia si vedono postate sui social molte immagini. Alcune, indipendentemente dalla motivazione di chi le inserisce fanno pensare che forse si tratti di una scelta infelice.

Mi riferisco alle immagini di persone che si fanno ritrarre nel momento o subito dopo la vaccinazione contro il Covid.

Sono certo che per la maggior parte si tratti di un tentativo di testimoniare la bontà della scelta vaccinale.

E se fosse una scelta infelice?

 Ma, ed è qui il dubbio sulla possibile scelta infelice, non sono così sicuro che questo sia effetto ottenuto?

Anche perché l’immagine è spesso monca di un dato fondamentale. Per quale motivo proprio quella determinata persona ha avuto l’opportunità di vaccinarsi? Il fatto che quella persona abbia avuto l’opportunità di vaccinarsi per il lavoro che svolge o per i rischi ai quali è sottoposto non appare automaticamente dalla foto postata. Chi posta le foto spesso pecca di autoreferenzialità, ritenendo che tutti sappiano chi è. Il fatto che lo sappia chi posta la sua foto non significa che lo debba sapere anche chi la vede.

Attenzione alle azioni divisorie

 C’è il concreto rischio che queste immagini attivino non la testimonianza di una scelta etica, ma la presenza di un privilegio. Certamente non è l’intenzione di chi posta la propria foto, ma è quello che può apparire a chi vorrebbe essere vaccinato, ma non può.

Qui non stiamo parlando dei cosiddetti no-vax, che mai saranno convinti da queste immagini. Qui stiamo parlando di tutti quei cittadini che si stanno chiedendo, con ansia, quando sarà loro concessa la stessa opportunità. Se la parola “opportunità” si trasforma in “privilegio” ecco che quell’immagine, al di là delle intenzioni, diviene divisoria. Aspetto quanto mai negativo a fronte dell’idea, che ci stiamo facendo, che dalla pandemia si esce tutti assieme.

Questo accade anche a causa di una mancanza di chiarezza sul piano vaccinale nazionale. Ma anche per il fatto che le singole regioni stanno facendo scelte diverse in questa direzione.

 Proprio il fatto di essere all’avvio del processo vaccinale, che non si riesca ancora a comprendere perché risultino vaccinate centinaia di migliaia di persone che non dovrebbero esserlo, dovrebbe indurre a maggior cautela.

 In questa direzione ritengo che ogni immagine che possa apparire divisoria a chi la guarda divisoria andrebbe evitata: proprio una scelta infelice.

Cosa ricorderemo di questo tempo di pandemia

Cosa ricorderemo di questo tempo di pandemia

Cosa ricorderemo di questo tempo di pandemia, magari tra qualche anno?

Si tratta di un tema che abbiamo affrontato in un contesto più generale nel sito di Confprofessioni.

Analogamente la domanda si pone nel mondo aziendale, anche per affrontare positivamente le trasformazioni che il futuro imporrà.

Quanto maestranze e collaboratori stanno vivendo in questi mesi peserà sul futuro di ogni azienda. Proprio perché ognuno ha bisogno di dare un senso, di elaborare, quello che sta vivendo. Tanto più se denso di preoccupazioni e pericoli. Ogni persone si costruisce una sorta di narrazione di quanto le sta accadendo. Una narrazione che ha lo scopo di mettere in ordine i fatti, i pensieri e le emozioni connesse.

Favorire la memoria collettiva

Sotto questo punto di vista è importante che l’azienda favorisca il fatto che tutte queste narrazioni confluiscano in una sorta di memoria collettiva. La memoria collettiva è la narrazione che aiuta un gruppo di persone a dare un senso all’esperienza che ha vissuto. In altre parole rafforza l’identità del gruppo.

Proprio perché la memoria collettiva è la somma di tutte le narrazioni individuali che le persone si costruiscono rispetto a ciò che accade, è importante che l’azienda si faccia promotrice di questo processo collettivo.

Si tratta di uno spazio (una bacheca dedicata, una pubblicazione, un’area intranet, ecc.) pensato per raccogliere e rendere visibile quanto vissuto dal proprio personale e anche l’impegno messo in campo ogni giorno da ciascuno per fronteggiare l’emergenza.

Questo favorirà una risposat positiva alla domanda iniziale su cosa ricorderemo di questo tempo di pandemia.