Paura delle paure

Paura delle paure

Tante paure stanno attraversando l’Italia. La paura della guerra, quella della mancanza di beni alimentari, della recessione e così via.

La paura non è però un’emozione negativa, anzi; è un potente attivatore di azioni: una spinta a cercare e trovare una soluzione al problema che si ha davanti.

Questo vale nella vita di ogni giorno e vale, nella nostra esperienza professionale, nella ricerca di una sempre maggior sicurezza sul lavoro.

Strategie per una paura positiva

 Affinché questa paura sia veramente il positivo attivatore appena descritto occorrono alcune condizioni.

In primo luogo le persone alla prese con l’esperienza di paura devono trovare nell’istituzione, nel nostro settore nell’organizzazione aziendale, un punto di riferimento credibile e affidabile affinché la paura possa essere affrontata. Chi negli anni ha perseguito l’obiettivo di un autentico ascolto dei problemi che via via emergevano tra i propri collaboratori oggi si trova nelle condizioni vantaggio. Questo perché viene visto come riferimento in questo momento nel quale l’incertezza sembra predominare.

Vivere nell’incertezza determinata una sofferenza a livello cerebrale, tanto che le persone sono spinte a cercare una qualsiasi risposta rassicurante che possa diminuire quanto stato di sofferenza.

Ecco perché è importante che le Istituzioni e le organizzazioni aziendali siano dei punti di riferimento: ma in modo tempestivo. Lo strumento fondamentale è la comunicazione che non può essere superficiale e contraddittoria, perché il continua cambio di informazioni aumenta l’incertezza, aprendo la possibilità di infiltrazione delle fake news.

Per comunicare efficacemente è necessario prima di tutto ascoltare le preoccupazioni delle persone e rispondere a esse in modo diretto e preciso. Non è tempo, ma a ben pensarci non lo è mai, di lungaggini e ragionamenti complessi. Le persone hanno più che mai bisogno di una risposta chiara; solo successivamente si può ed è necessario spiegare. Anzi la necessaria spiegazione sarà compresa e accolta nella misura in cui viene abbassata l’ansia dell’incertezza.

Questo ci porta al fulcro del linguaggio da utilizzare. Come abbiamo scritto la parole non sono mai  neutrali; ciò vale per quelle che udiamo ogni giorno in merito alla guerra, ma vale anche per quelle inerenti alla sicurezza sul lavoro. Ecco la necessità di utilizzare un linguaggio semplice evitando, per quanto possibile, parole in inglese o tecniche. Occorre ricordare che l’analfabetismo funzionale è una realtà significativa. Ciò comporta che molte persone, troppe, comprendono il significato letterario delle parole che vengono utilizzate, ma non il loro completo significato. Una realtà che mostra tutta la sua pericolosità perché le persone pensano di avere capito quello che gli viene detto, ma, attribuendo significati diversi alle parole ascoltate, il significato complessivo del messaggio può variare significativamente.

Imparare dalla paura

La realtà attuale, caratterizzata dalla paura legata alla guerra, può e deve insegnarci le migliori soluzioni (alcune le abbiamo tratteggiate) per migliorare le strategie per fare in modo che anche le paure legate alle condizioni legate alla pericolosità del lavoro possano divenire sempre di più una a spinta a trovare e condividere le migliori soluzioni.

La parole non sono mai neutrali

La parole non sono mai neutrali

Le parole non sono mai neutrali, ognuna di esse implica scenari semantici capaci di evocare immagini ed emozioni molto importanti in chi le ascolta. Questo è un tema che abbiamo spesso affrontato nel nostro lavoro, focalizzato sulla sicurezza sul lavoro e sulle risposte delle persone alle situazioni di emergenza, riscontrando come linguaggi troppo specialistici creano vissuti molto diversi tra chi parla e chi ascolta.

Le parole non sono mai del tutto neutrali; ogni parola ha un suo peso, anche quelle che sembrano solo “tecniche”.

Le parole di oggi.

Proprio in questi giorni questa realtà è sotto gli occhi di tutti. Sui media compaiono parole, tante parole, e con frequenza sempre maggiore, di cui non sappiamo bene il significato. Occorre chiedersi cosa suscita in tutti noi sentire, e a volte pronunciare, parole come guerra, terza guerra mondiale, bomba termonucleare e così via.

Immagini difficili da collocare perché, per nostra fortuna, apparteniamo a una generazione che non ha fatto esperienza di cosa significhino. Altre parole evocano scenari che ci appaiono più a fuoco. La parola Chernobyl ricorda la relativa fuga radioattiva che sta richiamando alla memoria una paura vissuta. Non una paura qualsiasi, ma, lo scrivevo allora, che evocava ed evoca scenari inquietanti perché le “radiazioni” sono invisibili. Di fronte all’invisibile ci si sente particolarmente impotenti, ma “occorre” fare qualche cosa. Ecco allora la ricerca di approvvigionarsi di compresse di iodio. Non importa se la loro efficacia è dubbia: sento che ho fatto qualche cosa.

Parole: tra paura e angoscia.

 Una parola che evoca paura, lo sa bene chi si occupa di sicurezza, attiva delle reazioni positive, perché la paura è una sorta di segnale di allarme che spinge a reagire. Senza questa attivazione si rischia di rimanere inermi di fronte a una fonte di pericolo.

Il nostro cervello è costantemente alla ricerca di risposte agli stimoli che gli giungono (e quindi anche alle parole) e per farlo utilizza l’esperienza che ne ha. Altrimenti le stesse creano una confusione difficile da tollerare.

Oggi la difficoltà sta proprio qui: come si collocano parole che evocano scenari di cui non abbiamo esperienza. Come si trovano utili e “ragionevoli” risposte?

Solo poche settimane fà stavamo deprecando la troppa facilità con la quale gli “esperti” di turno parlavano della pandemia. Ora gli esperti sono cambiati, ma la scarsa considerazione per l’angoscia che le parole possono creare non è cambiata.

Se la paura, come detto, suscita un movimento sano verso la soluzione dell’evento che la determina, l’angoscia no! Da un lato suscita blocca e congela ogni movimento attivo verso la soluzione. Sembra evocare piuttosto un mitico “speriamo che io me la cavo” (frase emblematica con la quale un maestro napoletano fotografava la reazione dei suoi scolari di fronte al degrado della città). Dall’altro lato suscita una disperazione che spinge ad accattare ogni soluzioni che la cancelli.

La soluzione non è mai nella censura delle parole, ma occorre trovare il modo per aiutare tutti a capirne il significato, quel significato emotivo che suscitano in tutti noi. Più siamo spinti a nasconderlo, a pensare che riguardi una nostra personale debolezza, e più diventa pesante da vivere.

Condividere il significato della parole.

 Quello di cui abbiamo tutti bisogno è di trovare modo di far emergere tutti gli scenari emotivi che ognuna di queste parole suscita in noi. proprio perché le parole non sono mai neutrali. Lo dobbiamo a noi stessi per arrivare a soluzioni che non seguono solo l’onda delle emozioni. Lo dobbiamo ai nostri figli che sono sempre più spaventati e spinti a una naturale regressione emotiva e cognitiva. Lo spazio è quello dell’incontro, della condivisione. Attivarlo non è facile, ma lo dobbiamo alla speranza per il futuro.

Come fare. Intanto parlandone, tra di noi, in famiglia, tra amici. In attesa che il mondo della politica comprenda che tutti noi non abbiamo solo bisogno di strutture e servizi, ma anche di luoghi di incontro che non possono essere delegati solo all’utilizzo dei social. Parlarne ci fa sentire meno soli in specie se qualcuno ci aiuta a cercare assieme delle soluzioni condivise. Facile? No, ma oggi più che mai necessario. Il nostro cervello impara dall’esperienza.

Guerra pandemia e sicurezza sul lavoro

Guerra pandemia e sicurezza sul lavoro

In questi giorni siamo intervenuti sia sul sito StudioZuliani sia per ConfProfessioni per sottolineare come la guerra in Ucraina stesse acquistando un peso del tutto particolare. Nello specifico perché andava a collocarsi in un momento in cui stavamo vedendo la fine di un’altra drammatica esperienza: la pandemia.

Ripercussioni sulla sicurezza sul lavoro

Questo specifico vissuto sta avendo delle ripercussioni anche sulla sicurezza sul lavoro. In particolare si segnalando un aumento di mancati eventi derivati da momenti di distrazione. Dal fatto che “la testa era da un’altra parte”.

Una situazione che pone seriamente la preoccupazione per un aumento degli incidenti sul lavoro, cosa che si sta vedendo già per la circolazione stradale.

Pensare di affrontare il tema aumentando solo l’insistenza sulla necessità della sicurezza non sembra del tutto efficace. Se la mente è distratta, o meglio alle prese con altre preoccupazioni, non c’è spazio per l’attenzione sulla sicurezza. Le persone non sono più distratte per una scelta personale o per comportamenti privati inidonei. L’energia mentale è quella che è, e se viene assorbita da tante preoccupazioni ci si dimentica delle cose da fare, delle procedure anche ordinarie.

Azioni da intraprendere

Secondo la nostra esperienza un’organizzazione attenta al benessere e alla sicurezza del personale deve caricarsi anche di queste preoccupazioni.

Come procedere in questa direzione in modo efficace?

Chiedendo agli interessati quali siano i focus delle preoccupazioni che li stanno invadendo. Già mettendo in campo questa attenzione si mostra un significativo e positivo interesse da parte della dirigenza. Quando una persona vive un momento di difficoltà, il fatto stesso che qualcuno se ne preoccupi è importante: sentirsi al centro dell’attenzione fa già stare meglio.

Certo questo non basta. Occorre poi agire azioni di sostegno delle preoccupazioni riscontrate con attività mirate. Anche solo sementire che sono preoccupazioni condivise, le alleggerisce. Aiuta poi che l’organizzazione  offra semplici, ma efficaci, suggerimenti relativi a strategia che ognuno può mettere in campo: aiuta.

Certo non è un’azione diretta sul tema della sicurezza sul lavoro. Ma alleggerisce la mente e rimette energia a disposizione delle necessarie attenzioni durante il lavoro e sulle relative mansioni.

Capire un incidente

Capire un incidente

Di fronte a un incidente occorre comprenderne le cause. Facile a dirsi e difficile a farsi anche perché spesso il nostro cervello non ci aiuta. Abbiamo spesso parlato di come il nostro cervello ricerchi relazioni certe e note tra i fatti che incontra. Questa ricerca ha un grande effetto rassicurante (so cosa aspettarmi), e comporta un grande risparmio di energia mentale (pensare costa fatica). D’altra parte proprio il manifestarsi di un incidente spesso sottende a cause del tutto nuove.

Individuare una correlazione spesso funziona, come la constatazione che mettere un piede davanti a un altro permette di camminare. Vi sono, però, delle circostanze nelle quali questa ricerca ci porta a errori significativi.

Se accade A, succede B

Vediamo un esempio di questa tipologia di errore. Per un incontro importante (un esame, un lavoro, ecc.) mi sono casualmente messo in tasca un fazzoletto rosso (fatto A). L’incontro è andato bene (fatto B).

Risulta evidente che non è stato il fatto di avere in tasca un fazzoletto rosso che ha determinato la positività dell’incontro.

Ma sarò spinto a mettermi sempre in tasca un fazzoletto rosso prima di ogni incontro importante per fare in modo che anche tutti gli altri vadano bene.

Poca cosa in questo caso, ma si tratta di un errore cognitivo che può risultare molto pericoloso in altre circostanze.

 Correlazioni vere, conclusioni forzate.

 Questa tipologia di errore la commettiamo quando, a fronte di una correlazione vera, arriviamo a delle conclusioni per lo meno troppo semplici e forzate. Ma anche queste rassicuranti.

Un esempio: mi accadono troppi incidenti, tanto che la mattina sono molto preoccupato di quello che mi succederà in giornata. La preoccupazione mi sembra un dato decisivo per cui la soluzione è quella di smettere di pensarci.

 Il ruolo della superstizione.

 Questa continua ricerca di correlazioni porta anche al pensiero di matrice superstiziosa. Tipico è quanto si attribuisce una sorta di pericolosità al numero 13. Tanto che in molti alberghi o grandi edifici non esiste il piano numero 13. L’aspetto buffo di questa superstizione è il fatto che il 13° piano continuerà a esserci.

 Dagli esempi riportati sembra si tratti di un meccanismo mentale alla fin fine molto innocuo. Non è proprio così: si tratta del medesimo ragionamento che possiamo essere spinti a compiere quando non esaminiamo tutte le concause di un incidente. Soffermandoci solo su quelle che appaino più dirette: appunto, che appaiono!

Memoria

Memoria

La memoria risiede al centro della nostra identità, stabilendo una singola, continua percezione di noi stessi. Possiamo quindi dire che la memoria garantisce la continuità della nostra vita. Ci fornisce un quadro coerente del passato che colloca in prospettiva le esperienze in corso. Un quadro che può non essere razionale o accurato, ma che comunque permane. Senza la forza agglomerante della memoria, le esperienze sarebbero scisse in tanti frammenti quanti sono i momenti della vita.

Senza la possibilità di compiere viaggi mentali nel tempo, conferita dalla memoria, non avremmo consapevolezza della nostra storia personale. Questo ci impedirebbe anche di ricordare le gioie che fungono da nette pietre miliari della nostra esistenza.

La memoria non è una videoregistrazione

D’altra parte, questa stessa memoria non è certo un’accurata videoregistrazione di ogni singolo momento della vostra vita. Si tratta di un fragile stato cerebrale di un tempo passato che deve essere resuscitato perché ce ne possiamo ricordare. Certo dimentichiamo molte cose, ma il nemico del ricordo non è il tempo ma gli altri ricordi. Ogni nuovo avvenimento stabilisce nuove connessioni tra il numero finito dei neuroni. Il fatto sorprendente è che un ricordo sbiadito a noi non appare tale: noi crediamo, o perlomeno presupponiamo, che l’intero quadro sia ancora là. Il problema è che questa ricostruzione  può talvolta confinare con la mitologia. Quando passiamo in rassegna i ricordi della nostra vita, dovremmo farlo con la consapevolezza che non tutti i particolari sono accurati. Alcuni di essi provengono da storie su noi stessi che la gente ci ha raccontato; altri sono influenzati da quello che pensavamo avrebbe dovuto accadere.

Quindi nulla da stupirci se, anche a fronte di uno stesso evento, i testimoni lo ricordano in modo diverso. È come se ogni cervello stesse raccontando una storia leggermente diversa. Perché i loro cervelli, che sono diversi, hanno esperienze soggettive diverse.

 Viaggiare nel futuro per decidere

Oltre a ricordare il passato, la memoria ha la funzione di farci viaggiare anche nel futuro, grazie alle esperienza passate.

Bertoli si cantava come “un guerriero senza patria e senza spada/con un piede nel passato/ e lo sguardo diritto nel futuro”. Lewis Carol ha scritto “è una memoria ben misera quella che ricorda solo quello che è già avvenuto”.

Quindi, quando siamo alle prese con una decisione, il nostro cervello si proietta nel futuro. Con i lobi prefrontali e frontali simula i diversi risultati per generare un modello di come potrebbe essere il nostro futuro. Questo permette, ad esempio, di stimare quale sarebbe l’esito in ciascuno di quei potenziali futuri.

Certo non si tratta di previsioni perfettamente accurate perché ogni previsione è basata solo sulle proprie esperienze passate e sugli attuali modelli di come va il mondo. Ecco perché è importante elaborare le esperienze che stiamo vivendo. In questo modo ci diamo una possibilità in più di affrontare il futuro con meno ansia e meno condizionamenti.

La curiosità

La curiosità

La curiosità è centrale perché il cervello è spinto costantemente a cercare di capire tutti gli stimoli che gli arrivano. Ogni cambiamento inaspettato è temuto in quando modifica la tanto amata stabilità (non a caso si parla di tendenza alla omeostasi). Ma le novità sono anche una grande opportunità di cambiamento e di evoluzione (questo è il vero significato di resilienza). Per favorire questo processo occorre aiutare le persone a non elevare barriere difensive troppo forti: aver paura dell’incognita insita nel cambiamento non aiuta. Una funzione nel favorire la  strada del cambiamento, senza far elevare barriere difensive troppo forti, sta nel modo in cui si comunicano le cose.

Lavorare sulla curiosità

Gli stimoli inaspettati catturano l’attenzione e possono generare curiosità di saperne di più. Questo perché, di fronte a ogni novità, attiviamo dei meccanismi mentali con la precisa funzione di non far sentire ciò che accade come estraneo o addirittura pericoloso. Ma, anzi, corrisponda a percezioni già note e a sensazioni già vissute. In questo modo le barriere si sciolgono verso una disponibilità a un nuovo che non viene vissuto come temuto.

Due esempi dal cinema

Due esempi, tratti da due scene cinematografiche notissime, ci aiutano.

In Guerre Stellari Han Solo vanta le grandi doti del suo Millennium Falcon dicendo “ha percorso la rotta di Kessel in meno di dodici parsec”. Letteralmente è una frase per noi senza senso, ma appare al contempo credibile. Per rimanere in tema andiamo a Blade Runner e precisamente alla morte del replicante Roy Butty che dice “io ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser”. Non importa se questi luoghi esistono o meno: sono entrati nella nostra mente per il modo in cui sono stati comunicati.

Una strategia

Come si vede da questi esempi, le informazioni non vissute come ostili hanno anche la forza di stimolare la curiosità: il cervello si attiva positivamente. L’obiettivo è quello di stimolare la curiosità, sapendo che il cervello avrà l’impulso di colmare i vuoti dell’informazione in suo possesso. Se offriamo noi delle risposte a questa curiosità, la stessa diventerà stimolo al cambiamento.

Incertezza

Incertezza

Incertezza. È la condizione nella quale tutti ci siamo trovati fin dallo scoppiare della pandemia. Tante domande alle quali abbiamo scoperto di non avere una risposta, o non avevano abbastanza esperienza per provare che le risposte che avevamo fossero corrette.

L’esperienza vissuta

Le stesse forme della comunicazione pubblica hanno accentuato questa condizione di incertezza. Le notizie arrivavano alla spicciolata, di giorno in giorno, smentendosi spesso le une con le altre. All’inizio la pandemia era stata paragonata a una forma influenzale. Si muore anche di influenza, ma ciò ha contribuito a una banalizzazione che poi le immagini dei camion militari a Bergamo hanno drammaticamente spezzato. Infine, abbiamo subito un’eccessiva circolazione di informazioni (infodemia), talvolta non vagliate con accuratezza. Ciò ha reso difficile orientarsi per la difficoltà di individuare fonti affidabili.

Non tolleriamo l’incertezza

L’organismo umano non può tollerare troppa incertezza o stimoli eccessivi. Le categorie che utilizziamo per organizzare le percezioni e il pensiero ci aiutano a togliere di mezzo ciò che non è importante, per aiutarci a concentrarci su quello che conta. Questo avviene perché, attraverso l’attivazione dell’amigdala, mettiamo in campo una naturale cautela, per affrontare una situazione inedita o molto incerta. Di fronte a questa attivazione assumono una funzione importante le nostre conoscenze e le norme sociali. Si tratta di strumenti che ci aiutano a ridurre l’incertezza. Ci aiutano a prevedere quello che può avvenire e il  comportamento altrui. Forniscono stabilità e regolarità all’interazione sociale, semplificando i problemi computazionali e dunque facendoci risparmiare tempo e fatica.

Riflessioni

È ben vero che Lorenzo il Magnifico scriveva “Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”. Ma è anche vero che dubbio, ansia, paura e fobia sono l’accumulo dell’incertezza che il tempo carica sempre di più. Il rischio è che la lotta tecnica al visus lasci pesanti strascichi nel vissuto di incertezza collettivo. Oggi abbiamo bisogno di ritrovare una lettura condivisa del tempo che stiamo vivendo. Questo per evitare che episodi limitati di rivendicazione personali diventino il luogo di incubazione di una rottura. Una rottura anche dei fondamenti della sicurezza in azienda. Fondamenti che risiedono in una cultura collettiva e condivisa basata sulla fiducia verso le scelte relative alla sicurezza da parte di chi, anche in azienda, è preposto a compierle.

Due idee per affrontare l’incertezza

Solo due idee prima per concludere:

Dedichiamo del tempo per condividere con i collaboratori il senso di incertezza e per trovare risposte che attenuino l’aggressività insita in ogni contrasto di idee.

Ritrovare la centralità di una comunicazione che, come abbiamo scritto, punta alla leggibilità e alla comprensione dei messaggi e non all’estetica. Siamo pur sempre un Paese con il 28% di analfabeti funzionali. La condivisione delle idee ha alla base l’attribuire tutti lo stesso significato alle parole che utilizziamo. Anche questo diminuisce l’incertezza.