Sbagliando si impara

Sbagliando si impara

La paura di sbagliare di cui abbiamo già parlato, porta all’indecisione di fronte a qualsiasi scelta: per non sbagliare, continuiamo a rinviare.

L’errore è inevitabile

Se l’errore è inevitabile, l’atteggiamento che assumiamo di fronte ad esso è fondamentale. In questa direzione è fondamentale liberarsi dalla tendenza a ipergeneralizzare: a pensare che sbaglieremo “sempre”.

In questo senso è importante l’atteggiamento che assumono le altre persone, in specie durante la prima infanzia e la scuola. Piccole prese in giro e commenti spiacevoli sono decisivi. Messaggi che indicano che siamo un “fallimento”, che “siamo dei somari” ci forniscono la spiacevole impressione di esserlo veramente. 

Dobbiamo accattare l’idea che, al di là degli errori che il fatto stesso di agire porterà con sé, ci saranno anche dei successi.

L’ossessione della prestazione

Questo porta all’ossessione della prestazione, vissuta come condizione necessaria per essere apprezzati e accettati dalla società, senza tollerare la minima incertezza sul lavoro, né in qualsiasi altro ambito.

La sfida per i perfezionisti consiste nell’accattare e integrare una parte di errore nelle loro vite. Per farlo, devono capire che lo loro intolleranza all’errore si applica solo a loro stessi, ed è decisamente sproporzionata.

Errore e azione

Nella misura in cui l’errore è indissociabile dall’azione, ogni azione può portare all’orrore. Ecco allora che l’unico modo per non sbagliare è non fare nulla.

Il fatto di commettere un errore non comporta un verdetto definitivo sulle nostre capacità, sui nostri desideri. Agite, provate, progredite! Questo è il mantra da ripetere senza sosta.

Gli studi lo confermano: i rimpianti peggiori che ci portiamo dietro per tutta la vita non riguardano azioni dall’esito negativo, ma quelle non intraprese per paura di sbagliare.

Osservare l’imprecisione

Le imprecazioni fanno parte della vita. Osservare che gli altri commettono errori non è “magra consolazione, ma ci permettono di capire che tutti li commento e che il giudizio non è buoi così negativo neppure per i nostri errori.

Come possiamo imparare dagli errori

É necessario restituirci la possibilità di commette errori. Non concederci questo diritto significa aprire le porte alla fobia e all’ansia. Per trovare l’atteggiamento giusto è dunque consigliabile adottare una prospettiva di scoperta perché questa è la vera funzione dell’errore: quella di guidarvi sul cammino che porta alla conoscenza di noi stessi.

La conoscenza di no stessi procede in gran parte per prove ed errori. Gli errori possono essere difili da digerire, spesso invece é necessario é importante cambiare strada quando si finisce in un circolo cieco.

Secondo questa prospettiva, i nostri errori dovrebbero essere considerati non come porte che si chiudono, bensì come la possibilità di vedere strade che rimangono aperte e che dobbiamo tentare di approfondire. Naturalmente bisogna saper insistere e non cambiare strada al primo ostacolo.

La paura di sbagliare

La paura di sbagliare

Il nostro cervello impara dagli errori che ha commesso. Affermazione largamente nota e condivisa. Ciò nonostante, abbiamo paura degli errori: la paura di sbagliare ci attanaglia con conseguenze sia nella vita personale sia quella lavorativa, in modo particolare nel modo in cui affrontiamo il tema della sicurezza sul lavoro e le risposta alle situazioni critiche. In fondo pensiamo che la cosa non ci riguardi. In fondo è il cervello degli altri, caso mai, a commettere un errore.

Si tratta di un aspetto così centrale che abbiamo deciso di dedicarvi alcuni articoli che via via pubblicheremo.

Conseguenze dalla paura di sbagliare

La paura di sbagliare può divenire un’angoscia.  Spesso fonte di malessere, nervosismo e talvolta di fobie. La paura di sbagliare arriva a bloccare ogni azione, provoca situazioni di immobilità. Una immobilità che ci rende difficile correggere l’errore e ci toglie la possibilità di evolvere o creare qualcosa di nuovo. Se dall’errore si impara precludiamo al nostro cervello proprio questa possibilità.

In realtà accettare l’errore è il segno di un’evoluzione in corso, del desiderio tangibile di trovare una soluzione: di avere successo. Sbagliare equivale ad trovare le forza per reagire: la prima cosa da fare per evolvere è accettare questo dato di fatto.

Perché abbiamo paura di sbagliare

La paura di sbagliare è legata a un giudizio totalizzante su noi stessi, considerarsi una persona del tutto inutile e incapace per quello che psicologicamente definiamo «meccanismo di ipergeneralizzazione». Il meccanismo di ipergeneralizzazione è la tendenza a estrarre una regola universale partendo da un singolo evento. Le persone che ne soffrono vivono ogni errore come un segno della loro generale incapacità.

La sfida è riuscire a dire: «Ho commesso uno sbaglio», non «Ho sbagliato tutto».

Non solo una sfumatura

La differenza di atteggiamento che assumiamo è fondamentale perché nel primo caso siamo spini a giudicare ogni singola azione, mentre nel secondo l’oggetto della critica è la persona nel suo insieme.

Calcio metafora della sicurezza

Calcio metafora della sicurezza

Il gioco del calcio, nelle sue evoluzioni, può essere una metafora del modo in cui affrontiamo un tema apparentemente molto lontano: la sicurezza sul lavoro.

Ricordi per la sicurezza

Ricordi per la sicurezza

Quando accade un incidente sul lavoro o si manifesta un errore all’interno di una procedura siamo indubbiamente spinti a ricordare ciò che è avvenuto.

Ricordare è importante per evitare che l’evento si ripeta o per trovare delle soluzioni per migliorare la sicurezza sul lavoro e le relative procedure.

 Attendibilità dei ricordi

 Evidentemente l’attendibilità di questi ricordi diventa essenziale per le azioni di miglioramento da mettere in atto. Ma questi ricordi sono veramente attendibili?

La comunità scientifica si è interrogata a lungo su questo tema, offrendo delle risposte che possono essere utili per mettere in atto le modalità più efficaci per raccogliere questi ricordi al fine di alimentare azioni di miglioramento.

 Migliorare la raccolta dei ricordi

 In sintesi, possiamo dire che coloro che si pongono l’obiettivo di raccogliere la parte positiva di questi ricordi è bene che tengano in considerazione che:

  • i ricordi si presentano spesso collegati l’uno con l’altro, anzi un evento richiama facilmente alla memoria qualcosa di simile già accaduto in precedenza. Un collegamento che va sempre preso in considerazione perché il legame che il nostro cervello fa dei ricordi può anche risultare negativo nella direzione di ritenere che se una cosa è accaduta ci si aspetta sempre che ne accada un’altra conseguente: è questo il pericolo da evitare;
  • in questa direzione può essere utile rafforzare questi legami nella misura in cui possono indurre le persone a comportamenti più adeguati. Senza temere di accettare la paura che, come è importante ricordare, funziona da attivatore di risposte positive e protettive, sempre che le persone siano debitamente formate su come comportarsi;
  • un altro aspetto da prendere in considerazione è quello che possiamo chiamare il tempo del “buon ricordo”. Ovvero considerare che dopo poche ore o pochi giorni i ricordi svaniscono o perdono di significato: quindi un’indagine, per fornire un esito positivo, deve essere svolta in tempi molto vicini all’evento accaduto;
  • anche l’età di chi ricorda è importante, perché le persone con il passare dell’età tendono a ricordare meno quello che è accaduto rispetto alle persone più giovani.

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La percezione di insicurezza

La percezione di insicurezza

Il tema della percezione di insicurezza, al di là dei dati statistici o delle inevitabili polemiche politiche, richiede una riflessione in special modo nel merito delle strategie per affrontare questo pesante vissuto che certamente impatta sulla dicotomia malessere-benessere.

Questo senso di insicurezza cresce nei riguardi di tante circostanze sociali con due fonti principali, la cui conoscenza può permettere di elaborare strategie efficaci di risposta.

Ne parliamo in modo più approfondito nel documento dedicato.

La prima fonte: la paura dell’insicurezza

Si tratta di una paura che si manifesta verso la criminalità e l’ansia verso un determinato e specifico evento, dall’altra abbiamo la preoccupazione che la stessa società elabora a fronte di un possibile evento.

Una distinzione importante perché nel primo caso abbiamo il coinvolgimento diretto della persona come vittima (ad es. omicidio, aggressione), nel secondo invece riguarda un aspetto più generale, come crimini verso il patrimonio (ad es. furto, borseggio), questi ultimi classificati anche come criminalità predatoria.

Un danno però non solo economico nella misura in cui anche quello psicologico derivante, ad esempio, dal furto è percepito dalle vittime come più grave rispetto alla perdita della proprietà o al danno economico.

A questo proposito Hough (1985), che nelle sue ricerche si è occupato dei furti in appartamento e nei veicoli, rileva come il danno emotivo, per le vittime, sia superiore a quello economico. In particolare, sottolinea l’importanza degli effetti sociali e psicologici derivanti dall’aver subito atti di criminalità come i furti, evidenziando la permanenza di condizionamenti anche a molte settimane successive al furto e una diminuzione della socialità e della fiducia nei confronti del prossimo.

In questa direzione occorre considerare anche la presenza di sentimenti di rabbia, un senso di insicurezza e di paura di restare soli nel luogo nel quale i ladri sono già entrati. Ecco perché dopo un furto crescono le strategie che le persone mettono in atto per difendersi dal ripetersi dell’infrazione, proprio perché collegano parte della loro identità all’ambiente nel quale vivono e che sentono violato.

 

La seconda fonte: Incivility

La percezione della insicurezza è legata anche ai segni di “incivility” come quelli relativi alla presenza di atti di vandalismo nelle città perché visti come specchio di comportamenti antisociali, tanto più se considerati tollerati dalle Forze dell’ordine. Ecco allora che la percezione dell’insicurezza da parte dei residenti in una zona poco vigilata, nonché il senso di paura e di isolamento, arrivano a indebolire la fiducia nelle istituzioni per quanto concerne la loro capacità di prevenire la criminalità.

Nei confronti dell’incivility sociale risultano fondamentali come segni di inciviltà sociale: degrado urbano, droga, sporcizia e atti di vandalismo. Il sentimento di insicurezza è un sintomo del clima generale di un quartiere dovuto più alla percezione dell’incivility che all’incidenza reale della criminalità diretta sui singoli.

La incivility mostra come la disorganizzazione sociale contribuisca ad accrescere la preoccupazione dei residenti per i problemi relativi al proprio contesto sociale e che ciò provoca a sua volta maggiore preoccupazione e probabilità di sentirsi insicuri.

 

Fattori incidenti sulla percezione del rischio criminalità

La modalità di percezione dell’altro è spesso fonte di processi di stereotipizzazione e categorizzazione generalizzata alla base di pregiudizi sociali. Nascono così stigmatizzazioni nei confronti delle eterogeneità presenti nel tessuto sociale alimentando timori generalizzati verso ciò che non è familiare o conosciuto. Di qui la categorizzazione (immigrato = criminale) porta gli individui a selezionare e modificare le informazioni al fine di confermare la differenza fra i gruppi.

Molti studi hanno preso in considerazione l’ambiente rurale nel confronto con quello urbano al fine di comprendere le variazioni del “fear of crime” nelle due realtà.

Tra i fattori che supportano una riduzione della percezione del rischio criminalità è stata individuata nell’importanza dell’ampliamento della sfera sociale, che aumenta la percezione di serenità dell’ambiente in cui si vive incidendo sul senso di sicurezza e riducendo lo stress. L’importanza del sostegno sociale ed emotivo è stata confermata attraverso il metodo della network analysis (Fischer, 1982), ovvero l’analisi della qualità delle reti di socialità nelle quali il soggetto è inserito, come base per capire origine e trasformazione del sentimento di insicurezza e di paura del crimine. Anche Lagrange (1992) ha evidenziato che, nel contesto delle grandi città metropolitane, le relazioni umane sono maggiormente autonome rispetto a quelle vissute nell’ambiente di provincia o dei centri urbani minori, per cui l’apprensione individuale si unisce alla preoccupazione per la sicurezza che risulta più amplificata.

 

Considerazioni conclusive

Le azioni di prevenzione personali maggiormente indicate risultano quelle passive (non uscire la sera, non frequentare orari/luoghi a rischio, ecc.) e viene attribuita maggior importanza agli interventi pubblici che coinvolgono le Forze di Polizia rispetto ad altre forme alternative, come i progetti locali sulla sicurezza.

Tenendo conto che dalle variabili considerate emerge un timore generalizzato fra la popolazione riguardo il rischio di subire reati, appare sensato chiedersi se la criminalità percepita sia dovuta ad una situazione di criminalità reale oppure possa essere il risultato di condizionamenti sociali.

La percezione del rischio si conferma, sulla base dei risultati della ricerca scientifica, correlata anche a variabili di natura sociale, non rientranti nella categoria delle incivility, ma legate in particolare all’intera sfera dell’eterogeneità sociale. Vengono valutate “rischiose”, infatti, situazioni notoriamente considerate “critiche” (presenza di tossicodipendenza, prostituzione, ecc.), ma emerge che la percezione del rischio è correlata anche ad una varietà di categorie sociali che appaiono quindi frutto di stigmatizzazioni e pregiudizi sociali (nomadi, extracomunitari), come evidenzia la letteratura in materia.

Relazioni significative emergono inoltre tra il livello di rischio in città e la percezione dell’aumento del crimine, come anche tra la percezione che il crimine sia in aumento ed il timore di essere vittima di un reato.

Le analisi svolte palesano una variazione nella percezione del rischio rispetto a quei fattori maggiormente percepiti della propria realtà residenziale. In particolare, si evidenzia l’attribuzione di diverse cause al fenomeno criminale tra città, periferia e zona rurale. Tale demarcazione appare evidente anche di fronte alla molteplicità degli indicatori sulle tipiche paure caratterizzanti la società contemporanea: disoccupazione, immigrazione clandestina, terrorismo internazionale, solitudine, microcriminalità, ecc.

Tale dato suggerisce un’analisi degli strumenti pubblici di prevenzione che in qualche modo possono contribuire ad una flessione del fenomeno, ma che non vengono considerati efficaci dalla popolazione: in particolare, i progetti di sicurezza come ad esempio la videosorveglianza, non vengano considerati sufficienti per combattere il senso di insicurezza. Analogamente l’impiego di volontari per la sorveglianza del territorio (i cosiddetti “vigilantes”) non sembra altrettanto rassicurante rispetto all’impiego delle Forze dell’ordine. Se da un lato un presidio eccessivo da parte delle Forze di Polizia potrebbe indurre un effetto inverso di “militarizzazione” delle città, i dati delle ricerche confermano che, comunque, la presenza e la visibilità maggiore costituiscono una misura insostituibile per una diminuzione del fear of crime: percepire la presenza e un capillare intervento, serve a ridurre inquietudini e insicurezze, fornendo la necessaria serenità nella convivenza civile. Le Forze di Polizia sono considerate una presenza indispensabile per la tutela della propria incolumità e la maggiore visibilità delle stesse viene tradotta in maggiore prevenzione. Proprio la fiducia nelle Forze di Polizia evidenzia un giudizio positivo sul loro operato. In particolare, l’impiego e la presenza sul territorio di queste ultime sembrano avere un impatto così elevato sulla percezione della sicurezza da rendere poco incisiva qualunque altra forma alternativa di sorveglianza, pubblica o privata. Il pattugliamento della città è considerato importante, mentre l’assenza del poliziotto di quartiere viene valutata come “rischio medio”.

I risultati emersi potrebbero incidere nella scelta e sulla predisposizione di misure di contrasto della criminalità predatoria, che dovrebbero essere non solo efficaci per la riduzione del numero di crimini, ma anche capaci di offrire al cittadino una percezione di maggiore sicurezza. In particolare, emerge la necessità di implementare quelle figure (come il carabiniere, il poliziotto, l’agente di polizia municipale) che per vocazione sono preposte alla salvaguardia della sicurezza, dirigendo gli sforzi verso politiche adeguate (un coordinamento interforze piuttosto che verso un potenziamento o una diversificazione dei compiti), che diviene punto di riferimento per il cittadino (come lo è la recente figura del poliziotto/carabiniere di quartiere).

In allegato una bibliografia di approfondimento sul tema.

Guardare e vedere

Guardare e vedere

Guardare e vedere non sono sinonimi: fanno riferimento a due esperienze diverse.

Guardare le cose attorno a noi, quello che accade, le persone che incontriamo significa osservare il tutto con gli occhi di una cultura condivisa. Questo è inevitabile: il nostro cervello interpreta gli stimoli che gli arrivano sulla base degli schemi che possiede. Che si è costruito negli anni, spesso utilizzando proprio l’esperienza condivisa con gli altri, quello che ci hanno insegnato a interpretare.

 Vedere

 Vedere è un’esperienza in parte diversa dal guardare. Non comportai negare gli schemi precedenti, ma accettare, senza negarli, che vi siano anche altri segnali che vanno visti, mostrati e elaborati per una nuova lettura della realtà. Non si stratta di un’opera di rottura con il passato e la tradizione, che rischierebbe di essere respinta, ma di un progresso nel leggere la realtà.

 Marco Polo

 Un esempio ci viene da lontano, e, proprio perché lontano, ci può essere più facile comprenderlo alla luce di quanto scritto sopra.

Se tratta di una pagina del “Milione” di Marco Polo. Nell’originale versione francese e non nella riscrittura in lingua Toscana che ne ha modificato molte parti, cambiando proprio quelle che non corrispondevano alla cultura interpretativa della realtà corrente.

Nel suo viaggio Polo si attendeva di incontrare l’unicorno. Un animale che la cultura del suo tempo considerava esistente tanto da essere raffigurato nello stemma del regno inglese.

Marco Polo, come si aspettava, lo incontra, ma vede che quel l’animale ha delle caratteristiche diversi da quel tenero capretto o snello cavallino che si aspetta. Infatti, nella sua descrizione scrive che ha “pelo di bufali e piedi come leonfanti”. La sua testa sembra più quella di un cinghiale.

In realtà l’animale che vede è il rinoceronte, ma lui non lo conosce ( sua cultura condivisa non sa della sua esistenza) e chiama questo animale unicorno. Marco ha però una vivida intelligenza e osserva che quello che ha di fronte non è  come nella tradizione, un animale che ha un atteggiamento gentile verso le fanciulle. Particolarmente mansueto con le fanciulle vergini, simbolo di purezza. Marco Polo scrive “ella è molto laida bestia a vedere. Non è, come si dice di qui, ch’ella si lasci prendere alla pulcella, ma è il contrario”. Non capisce perché questo unicorno non si comporti come dovrebbe, ma lo vede e ne prende atto.

 Vedere per comprendere

 Al di là di questo racconto, appare chiaro che vedere è l’attenzione migliore che possiamo mettere in atto per comprendere, gradualmente, ma sempre meglio, la realtà che viviamo.

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Il von Trotta che è in noi

Il von Trotta che è in noi

Vivere una situazione drammatica, anche nel mondo degli incidenti sul lavoro, è spesso un’esperienza che si fissa nella memoria. Si tratta di un processo importante per la vita di ognuno perché si cerca di fornire un senso a quello che è accaduto. Spesso un ostacolo a questa elaborazione proviene da qualche cosa di esterno: come, a titolo di esempio, da una visione “oggettiva” dell’accaduto. Può essere la ripresa di una telecamera, un testimone: non è questo l’aspetto rilevante. Quanto piuttosto il non riconoscersi in questa visione “oggettiva”, tanto più quando l’interessato è spinto ad aderirvi per essere considerato ragionevole e attendibile.

Non vogliamo entrare in merito all’accertamento dei fatti quanto alla necessaria comprensione che tali disparità comporta sul piano della sofferenza personale. Ognuno di noi ha bisogno di leggere quello che gli accade rispettando i propri tempi. In questo va aiutato, e non forzato a una lettura dei fatti, che per quanto oggettiva, rischia di sentire lontana se non estranea.

 La storia di Von Trotta

 Sotto questo punto di vista ho scritto della vicenda di Von Trotta, descritta da Joseph Roth ne “La marcia Radetzky” (1932) a cui rimando.

Il fatto che von Trotta non si ritrovasse nel racconto del suo gesto eroico descritto dal libro di testo del figlio è significativo. Nel libro si racconta di un gesto molto più eclatante di quello da lui messo in atto per salvare l’imperatore Francesco Giuseppe. Von Trotta poteva andarne fiero, ma non è così. Per lui la verità, quella che lui conosce e nella quale la sua memoria del fatto lo fa riconoscere è più importante.

Von Trotta e la sicurezza sul lavoro

 Questa vicenda mostra come le stesse indagini relative agli incidenti sul lavoro devono considerare il vissuto e la lettura che l’interessato ne fornisce. Questo perché la reazione che la persona metterà in atto, anche al solo ripresentarsi di situazioni simili, dipenderà in larga parte da come ha vissuto ed è stato aiutato a elaborare l’episodio originario. Un processo di elaborazione che non consiste sono nella visione oggettiva delle cose, ma anche dal significato emotivo delle stesse. Un aspetto che un’azienda attenta al benessere e alla sicurezza dei dipendenti può efficacemente mettere in atto.