Le guerre tribali moderne

Guerre-tribali-moderneLe guerre tribali moderne

di Ilwana Klinke

Com‘è possibile che in un Paese democratico e sviluppato, padri di famiglia, anziani e donne inizino ad avere atteggiamenti rabbiosi, offensivi e invadenti, fino a commettere dei danni materiali e prendersela con i membri di un altro gruppo come se si stessero sviluppando delle guerre tribali moderne? Succede, in effetti, che persone comuni finiscano sui giornali, in seguito ad atteggiamenti violenti nei confronti di un’altra comunità di persone. Loro stessi, come pure gli amici, i vicini, i malcapitati spettatori, si chiederanno successivamente, come si è potuto arrivare a tanto e che cosa abbia potuto scatenare tale aggressività in persone considerate “normali” e del solito assai pacifici.

Un esperimento

Un esperimento sociale su come si possano sviluppare guerre tribali moderne (Robbers Cave) di M. Sherif potrà darci qualche indicazione più che interessante a tal proposito. La ricerca si svolse nel 1954 con dodicenni di razza bianca, provenienti dalla classe media americana di fede protestante. Furono scelti 22 ragazzi che non si conoscevano tra di loro. Vennero distribuiti arbitrariamente in due gruppi. In una prima fase le due squadre furono tenute separate e ignoravano l’esistenza dell’altro gruppo. L’esperimento si svolse in un grande campo scout, dove i ragazzi facevano attività fisica, come nuoto e camminate, per creare uno spirito di gruppo. Ai ragazzi veniva chiesto di scegliere un nome per il loro gruppo (nome che veniva poi scritto anche sulle loro magliette) e di fabbricare una bandiera. La prima settimana i due gruppi non s’incontrarono mai. I ricercatori si limitarono ad osservare i ragazzi e intervenivano solo per lo stretto necessario.

Dopo una settimana, si decise di radunare i due gruppi, continuando con le attività e i giochi, ma stavolta si puntava sulla competizione. I membri della squadra vincente ricevettero tutti un premio, mentre i perdenti, se ne andarono con le mani vuote. Non erano previsti premi di consolazione, anzi, ad un certo punto, i ricercatori si erano perfino arrangiati per far giungere uno dei gruppi in ritardo a uno dei pasti, in modo che i primi arrivati spazzolarono via il cibo appositamente razionato dagli adulti. I ritardatari rimasero quindi con la pancia vuota. Tutto ciò, avvelenava pian piano l’ambiente e i ragazzi diventarono sempre più aggressivi. All’inizio le frustrazioni e la rabbia vennero espressi solo all’interno del proprio gruppo d’appartenenza. Poi i ragazzi cominciarono ad aggredire verbalmente gli avversari. Infine passavano agli atti e rovesciarono i letti, rubarono effetti personali e uno dei gruppi decise di bruciare la bandiera dei rivali. Tutto ciò in meno di una settimana. Un incremento di violenza che alcuni non si sarebbero aspettati, anche perché la settimana precedente questi stessi ragazzi convivevano in modo del tutto pacifico. Sherif attribuisce la causa di tale comportamento all’ambiente competitivo e alle risorse limitate.

Conclusioni

Al contrario di quello che in tanti pensano, l’aggressività può scatenarsi anche in persone del solito pacifiche e “normali”. Non bisogna essere né un piccolo bullo, né avere un passato pesante alle spalle. E’ altrettanto intrigante vedere la facilità con cui si riesce a manipolare le persone e tirar fuori un’aggressività latente. Difatti, chi teneva in mano i fili erano i ricercatori. Con poche mosse, senza intervenire direttamente sui rapporti dei giovani partecipanti, hanno trasformato dei ragazzi pacifici in “piccoli mostri”. Questo fatto dovrebbe farci riflettere. Prima di prendersela con un altro gruppo, sarebbe giudizioso capirne la vera causa, oppure analizzare se non si viene in qualche modo manipolato. L’aggressività è poi raramente la miglior soluzione, solo la più veloce. Spesso si agisce d’impulso invece di guardare alla situazione con un certo distacco. Riguardo alle critiche, e lasciando da parte l’aspetto etico e deontologico*, si potrebbe infatti sostenere che la situazione creata non corrispondeva alla realtà, poiché è difficile trovare gruppi così omogenei (ragazzi di 12 anni dello stesso ambiente socioculturale) che convivono in un ambiente chiuso senza contatto con altri membri della società. I ricercatori avrebbero, in effetti, dovuto tener conto dell’influenza che avrebbe potuto avere un adulto oppure la presenza di ragazze all’interno dei due gruppi.

Critica forse non più del tutto attuale poiché, oggigiorno, il mondo virtuale, si avvicina talvolta parecchio a questo modello. Esistono gruppi sul web che evolvono proprio tra di loro in un ambiente molto chiuso. La chiusura di un gruppo non permette ai suoi membri di visualizzare l’accaduto da un altro punto di vista, magari più distaccato. Sarebbe quindi giudizioso vegliare perché le comunità siano aperte e non lasciate troppo a se stesse. Infine, se i due gruppi avessero legato e si fossero sostenuti a vicenda, avrebbero probabilmente passato una vacanza più valorizzante. Lo spirito competitivo e le poche risorse non dovrebbero escludere la solidarietà sociale laddove possibile. * I ragazzi non furono informati che si trattava di un esperimento. Successivamente i ragazzi e le famiglie non sono stati aiutati e seguiti per elaborare il vissuto.

Avversione alla perdita

avversione alla perditaAvversione alla perdita

di Antonio Zuliani

L’avversione alla perdita (loss aversion) è un meccanismo mentale per cui le persone sono sensibili alla perdita piuttosto che alla vincita della stessa cifra. Si tratta dello stesso processo psichico per cui è molto più facile accumulare le cose piuttosto che abbandonarle: aspetto ben noto ai collezionisti. Tra l’altro spesso questa avversione alla perdita si allea con un altro terribile meccanismo che potremmo definire l’obbligo alla coerenza. Probabilmente è proprio questo che sta alla base del gioco dell’ “asta dei 20 euro” messo a punto del prof Bazerman della Harvard Business School (ovviamente in dollari).

In sostanza il gioco è questo: viene messa all’asta una banconota da 20 euri sulla base di tre regole:

  • i rilanci consentiti sono di un euro alla volta;
  • chi offre la cifra più alta si aggiudica l’asta e ha la banconota senza dover pagare nulla;
  • chi si classifica secondo, cioè ha offerto la cifra immediatamente inferiore, dovrà versarla al banditore.

Il fenomeno che il professor Bazerman ha osservato è che quando le offerte si avvicinano alla cifra di 20 euro i partecipanti rimasti si fanno più accaniti e quando la corre offerte superano i 20 euro nessuno sembra disposto a fermarsi, attanagliato sia dall’avversione alla perdita sia dall’obbligo alla coerenza, arrivando a offrire e poi a perdere cifre rilevanti. Perché alla fine c’è sempre qualcuno che vince, e intasca gratuitamente i 20 euro, e che perde, e versa l’ultima offerta che ha fatto. Il fatto è che, di fronte ad una perdita possibile, si attiva subito l’Amigdala e sono solo le conoscenze e le consapevolezze della corteccia perforate che possono sottrarci al tranello di affidarsi all’Amigdala invece che alla matematica. L’autoconsapevolezza di quello che si sta provando diviene essenziale. Al di là del giochetto presentato, la dinamiche innescata è la stessa presente in scenari economici e politici, dove l’avversione alla perdita e il fenomeno della rivalsa fanno si che prevalgano le dinamiche emotive. Esse spingono alla ricerca della vittoria che si trasforma in sconfitta. Si tratta di meccanismi molto noti in chi si occupa di gioco d’azzardo.

Telefonare in macchina fa male

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di Antonio Zuliani

Con l’introduzione della patente a punti l’uso diretto del telefono in auto è particolarmente penalizzato. Tanto che il nostro Codice della Strada prevede (atr. 173) che sia “vietato al conducente fare uso durante la marcia di apparecchi radiotelefonici ovvero di usare cuffie sonore…” . 

Tutto corretto, ma la psicologia cognitiva con tutta evidenza mostra una realtà che dobbiamo prendere in considerazione: l’uso del cellulare distrae dalla guida indipendentemente dalla modalità tecnica adottata. Come dimostra Hyman (2010) mostrando che il telefonare camminando influisce sia sui comportamenti motori (tendenza a camminare a zig-zag) sia sull’attenzione (mancata visione di elementi presenti delle scena).

Dal punto di vista della distrazione prodotta non vi è differenza: è il fatto di telefonare che rappresenta il pericolo: telefonare in macchina fa male alla salute sempre. 

Le ricerche dimostrano che non è possibile prestare la stessa attenzione a due compiti contemporaneamente: per cui sostenere una telefonata, magari di un certo rilievo, non è compatibile con l’attenzione alla guida. Il nostro cervello non può, infatti, prestare attenzione a troppi stimoli contemporaneamente. Si tratta di una constatazione poco gradevole, ma è così! D’altra parte sappiamo che gli stimoli che gli arrivano contemporaneamente superano i 10 milioni al secondo: se non ponessimo dei filtri e delle barriere impazziremmo. Ma proprio questi filtri hanno lo svantaggio di determinare le condizioni per la distrazione.

La cosa è diversa rispetto a quando si parla con il passeggero dell’auto perché, in questo caso, se si presenta un mutamento nello scenario che richiama l’attenzione del guidatore entrambi rallentano o smettono di parlare per cui l’effetto distraente diminuisce, cosa che non avviene al telefono perché l’interlocutore non partecipa alla stessa azione visiva (Macknik e Martinez-Conde, 2010).

Porre l’accento sulla distrazione appare importante perché da una ricerca svolta sul territorio svizzero emerge nel 2010 la disattenzione e la distrazione sono stati corresponsabili di almeno il 26 % di tutti gli incidenti gravi e mortali (1.189 feriti gravi e 68 morti in cifre assolute): la prima causa di incidenti stradali. Alle stesse conclusioni è giunta la National Highway Traffic Safety Administration (NHTSA)  statunitense che ha proposto il divieto assoluto dell’uso del cellulare alla guida dell’auto. La stessa Fondazione ANIA asserisce che per chi parla al cellulare aumenta di 4 volte il rischio di commettere incidenti.

Per cui anche utilizzare i più raffinati apparati viva-voce non modifica la conclusione che gli studi psicologici ci offrono: telefonare in macchina fa male alla salute.

Fondazione ANIA , (2010), La distrazione vero rischio per la sicurezza stradale.
Hyman I.E e altri, (2010), Did You See the Unicycling Clown? Inattentional Blindness While Warking and Talking on A Celle Phone, in Applied Cognitive Psychology, m. 24, pp. 597-607, 2010
Macnik S.L., Martinez-Conde S., (2010), I trucchi della mente, Codive Edizioni, Milano, 2012.

Meglio un uovo oggi che una gallina domani

Meglio-un-uovo-oggi-che-unaMeglio un uovo oggi che una gallina domani

di Antonio Zuliani

Meglio un uovo oggi che una gallina domani recita un proverbio italiano che sembra esprimere sfiducia nel realizzare maggiori vantaggi in avvenire, per cui è più conveniente contentarsi del poco certo dell’oggi senza correre rischi.

Su questo tema Tversky e Kahneman hanno condotto un importante esperimento. Ci viene offerto un premio di 3.000 euro. Dopo di che ci viene chiesto di scegliere una delle seguenti possibilità:

a) ricevere con certezza altri 1.000 euro;

b) gettare in aria una moneta e giocare a testa o croce: se vinciamo ci vengono in tasca altri 2.000 euro, se perdiamo non riceviamo nulla. Voi cosa scegliereste? Tversky e Kahneman hanno visto che la maggior parte delle persone scelgono l’alternativa a).

Successivamente i due studiosi propongono un’altra possibilità. Ci viene offerto un premio di 5.000 euro. Dopo di che ci viene chiesto di scegliere una delle seguenti possibilità: c) perdere con certezza 1.000 euro; d) gettare in aria una moneta: se perdiamo dovremmo pagare 2.000 euro, se vinciamo non dovremmo pagare nulla. Di fronte a questa seconda alternativa le persone tendono a scegliere la possibilità d), lo,avete fatto anche voi?.

Il fatto è che scegliere a) o c) comporta lo stesso risultato, come, del resto, scegliere c) o d).

Se scegliamo a) ai nostri 3.000 euro se ne aggiungono altri 1.000 per un totale di 4.000. Se scegliamo c) ai nostri 5.000 euro ne vengono sottratti 1.000 per un totale, ancora una volta, di 4.000.

Passiamo alle altre due alternative: Se scegliamo b) a vinciamo ci vengono in tasca 5.000 euro, che è l’analogo risultato di una vincita con caso d). Se perdiamo (caso c) ci restano i nostri 3.00 euro iniziali, cifra analoga di quella che otterremmo con la perdita nel caso d)

La domanda che ci si pone è: se i risultati sono del tutto sovrapponibili perché nel primo caso preferiamo l’alternativa a) e nel secondo caso siamo disposti a giocarcela [scelta d)]?

La risposta sta nel fatto che siamo spontaneamente conservatori in situazioni di vincita [l’alternativa a) parla di vincita] e invece più disposti al rischio nelle situazioni di perdita [c) parla di perdita].

I calcoli razionali vengono offuscati dalle emozioni connesse alle parole vincita e perdita.

Questo meccanismo ha una sua importanza nella valutazione che compiamo di fronte a molte altre situazioni (pensiamo al tema delle decisioni finanziarie) , ma sembra importante ricordare, quando si prendono decisioni, che si è più propensi a considerare più rischiosa una situazione nella quale si prospetti una perdita rispetto alle altre. Saperlo aiuta a non sbagliare!

Ecco allora che il proverbio: meglio un uovo oggi che una gallina domani rappresenta una possibile trappola cognitiva nella vita di ognuno di noi.

La sicurezza sociale può essere incrementata grazie ad un’integrazione effettiva delle seconde generazioni

seconde-generazioniLa sicurezza sociale può essere incrementata grazie ad un’integrazione effettiva delle seconde generazioni

di Martina Zuliani

Il dibattito sulla questione seconde generazioni

Negli ultimi anni si è aperto un dibattito sui ragazzi nati in Italia da genitori stranieri, dibattito che riguarda il diritto di cittadinanza. In Italia la cittadinanza di acquisisce per jus sanguinis, cioè essendo figli di almeno un genitore italiano. I figli di stranieri, anche se nati nel nostro Paese, rimangono registrati nel permesso di soggiorno dei genitori fino alla maggiore età ed, al compimento dei 18 anni, devono richiederne uno a nome loro o, avendo le caratteristiche necessarie, possono richiedere la cittadinanza italiana.

Seconde generazioni ed esclusione sociale

La mancanza della cittadinanza italiana fa si che molti ragazzi provino sentimenti contrastanti tra il fatti di sentirsi italiani e quello di essere considerati stranieri. Un ulteriore problema riguardante l’identità delle seconde generazioni è che essi sono spesso visti come stranieri dalla società maggioritaria, hanno meno opportunità dei coetanei e vivono in quartieri a prevalenza di stranieri, spesso degradati.

La sfida alla sicurezza portata dall’esclusione sociale

Le conseguenze dell’esclusione sociale possono andare dallo stress, alla sensazione di non essere voluti, ma anche a manifestazioni violente quali le rivolte delle banlieux in Francia o la recente adesione a gruppi terroristici. I rari attentati terroristici avvenuti in Europa sono avvenuti per mano di giovani uomini aventi la nazionalità di Paesi dell’Unione Europea.

L’identità gioca un ruolo fondamentale

L’identità è una parte importante dell’individuo e si forma bilanciando la visione che la persona ha di se stessa e quella attribuitale dalla società. Visioni negative e stereotipate possono perciò danneggiare l’intera identità dell’individuo, soprattutto nel caso di giovani adolescenti e preadolescenti. Tale fase di vita risulta essere, infatti, la più delicata dato che il giovane si trova a dover costruire un’identità propria staccata da quella dei genitori.

Per le seconde generazioni, l’ostacolo nella creazione dell’identità è più elevato di quello affrontato dai coetanei appartenenti alla popolazione maggioritaria. Difatti, essi si possono trovare nella situazione di percepire la cultura dei genitori come estranea, di accettarla in pieno e di sentirsi stranieri nel Paese di nascita o di bilanciare la cultura d’origine con quella del Paese di residenza.

Sia nel primo che nell’ultimo caso è però possibile che il giovane, pur sentendosi italiano, non venga visto come tale dalla società maggioritaria e venga discriminato. In questo caso, Portes e Rumbaut parlano di downward assimilation.

La mancanza di un’identità è sfida alla sicurezza

Le persone che non si sentono accettate dalla società cercano un’identità che riesca a compensare il loro bisogno umano di sentirsi valorizzati. Il rischio è che tale identità sia estremista o, quantomeno, nazionalista. Smith ritiene che il nazionalismo sia, infatti, una risposta dell’individuo al collasso del suo mondo sociale e al suo bisogno naturale di appartenere ad un gruppo umano stabile. Per i giovani figli di migranti il nazionalismo, e la Patria, sono però spesso entità estranee in cui non si fa ritorno se non raramente, per le vacanze o per visitare i parenti. Entrano quindi in gioco altri enti che, prendendo il posto della Patria intesa in senso classico, offrono un’identità forte ai giovani spaesati. Questi enti possono essere gruppi locali devianti o gruppi transnazionali criminali o terroristici.

L’ISIS e la sua offerta d’identità

Negli ultimi anni, è l’ISIS ad aver avuto più successo nel reclutamento di giovani europei di origine straniera. Lo Stato Islamico di Iraq e Siria ha messo insieme una rete di propaganda e comunicazione tale da inviare messaggi diretti e veloci in tutto il mondo. Tale  organizzazione propone video brevi di reclutamento e propaganda e mostra le proprie azioni in maniera diretta. Presenta un misto di musiche, immagini violente e di uso di twitter, e di estremismo religioso. Tale miscela, ben elaborata e bilanciata da esperti della comunicazione, risulta appetibile a quei giovani che si sentono rifiutati dalla società occidentale e che cercano un’entità forte con la quale identificarsi.

L’importanza dell’inclusione sociale

Risulta quindi necessario, ai fini della sicurezza sociale, contrastare i fenomeni terroristici partendo, più che dalla lotta armata, dal diminuire le possibilità di reclutamento di giovani da parte di organizzazioni criminali ed estremiste. Aumentando l’inclusione dei giovani nati in Europa da genitori migranti e parificando le loro opportunità sociali con quelle dei coetanei appartenenti alla popolazione maggioritaria si può diminuire il sentimento di insoddisfazione e incertezza, fertile terreno per lo sviluppo di estremismi e fanatismi. Per far si che ciò accada bisogna creare politiche di inclusione più forti, creare opportunità per i giovani, ma anche combattere le discriminazioni in maniera attiva creando opportunità di conoscenza ed applicando leggi e controlli contro la discriminazione etnica e religiosa.

La comunicazione della sicurezza dai bit all’inclusione

comunicazione-inclusivaLa comunicazione della sicurezza dai bit all’inclusione

di Antonio Zuliani

La comunicazione relativa ai temi della sicurezza sul lavoro deve necessariamente aggiornare metodi e strategie all’evoluzione della sensibilità sociale e alla presenza di lavoratori provenienti da realtà culturali diverse. L’articolo affronta il concetto di comunicazione proponendo una breve è panoramica della sua evoluzione dagli anni ’40 ad oggi. Andando dalla comunicazione uni-direzionale e quella inclusiva.

Tutto nella difficoltà di uno scritto breve e con la complessità di fornire una definizione di comunicazione perché l’uomo è un essere comunicante e, dunque, comunicazione riguarda la totalità della sua vita e delle sue attività.

Esattezza, precisione, efficacia.

Il primo modello si basa sul lavoro di Clayde Shannon e Warren Waever del 1949. Per loro l’informazione è un dato da trasportare da un punto ad un altro di un canale e quindi la loro attenzione è quella di farlo con la massima esattezza, precisione ed efficacia.

Da questo punto di vista l’attenzione principale si pone sul messaggio e sulla necessità di ridurre l’incertezza nel trasmetterlo. Ecco allora che vengono sviluppate una serie di formule matematiche per misurare le quantità di informazione (bit) necessarie a fare in modo che il messaggio sia trasmesso e ricevuto senza incertezze.

La minaccia fondamentale rilevata in questo modello è quella del “rumore”, elemento di disturbo che può deformare il messaggio facendo si che quello ricevuto sia diverso da quello inviato. Ecco allora che l’attenzione si centra sulla ridondanza che prevede una serie di ripetizioni e i relativi sistemi di controllo (ad esempio lo spelling).

Feedback

Il limite della teoria illustrata è quello di vedere la comunicazione come un processo lineare e di non tener conto della bidirezionalità e del feedback.

Ossia questo modello, pur utile per i suoi scopi pragmatici e tecnici, non descrive la complessità dei fenomeni della comunicazione umana, che è sempre bidirezionale: prevede, cioè, il feedback.

L’introduzione di questo concetto mostra come ogni comunicazione contiene la possibilità di una verifica di efficacia attraverso la verifica di cosa ha compreso l’interlocutore. Da questo punto di vista non ci sono cattivi ascoltatori, ma cattivi comunicatori

Il significato: segni, significati, interpretazione.

Un’ulteriore evoluzione la possiamo vedere nel fatto che un dato può essere trasmesso da un punto all’altro nello spazio solo a patto di affrontare un elemento fondamentale della comunicazione umana: il significato. Ovvero il senso che vogliamo esprimere e che vorremmo fosse compreso.

La lingua è lo strumento principale attraverso il quale comunichiamo, ma esistono anche altri linguaggi come quello dell’arte e del cinema. Così, ogni qual volta utilizziamo una parola comunichiamo un concetto, un’idea, un’immagine, ma poi quello che conta è il significato attribuito a quell’idea o a quell’immagine da chi ascolta quella parola. Se i significati non sono condivisi non vi è comunicazione.

Dal punto di vista della semeiotica (la disciplina che si occupa di studiare i segni e il loro uso) è necessario che le persone posseggano la stessa “enciclopedia”, perché solo allora sono in grado di condividere. Nella consapevolezza, comunque, che essa stessa è in costante rielaborazione.

In altri termini il significante (cioè l’immagine acustica o l’immagine scritta) porta a un significato e a un concetto. Ecco allora che chi riceve una comunicazione deve sempre attuare un processo di interpretazione perché i segni non sono portatori di un unico semplice e immediato significato.

La normalità non è quella in cui il mittente e il destinatario condividono esattamente lo stesso codice, bensì il contrario: la comunicazione consiste nello sforzo di comprendersi, di interpretare correttamente i segni. L’attività a suo modo rischiosa, in cui nulla è dato per scontato né garantito.

La comunicazione come “comportamento” e interazione.

Un’ulteriore evoluzione la dobbiamo agli studi di Bateson che considera gli organismi come dei sistemi aperti, la cui esistenza è sempre in relazione tra loro e con l’ambiente. Secondo questo approccio la comunicazione implica “collaborazione degli attori”, ovvero delle persone che entrano in contatto tra loro e comunicano, mediante “una gestione comportamentale coordinata della co presenza” .

L’attenzione quindi va posta sul modo in cui gli interagenti si comportano per comunicare durante la comunicazione, di qui la valorizzazione della comunicazione non verbale.

Ecco allora che comunicando noi emettiamo una certa quantità di informazioni, ma contemporaneamente metacomunichiamo il tipo di rapporto che vogliamo instaurare con l’interlocutore. La comunicazione non è riducibile a un semplice atto, ma è il sistema per mezzo del quale gli individui si mettono in relazione.

La comunicazione come redazione e come “costruzione di realtà”.

Un ultimo passaggio, che a ben vedere ingloba tutti quelli precedenti, considera che ogni fenomeno comunicativo chiama in causa l’intero modo di vivere degli individui che ne sono protagonisti. In altri termini le pratiche comunicative contribuiscono a costruire una realtà comune condivisa e intersoggettiva.

La comunicazione ha che fare con le modalità di relazionarsi agli altri; essa non consiste più solo nel trasferimento di informazioni, quanto nel processo di condivisione di sistemi simbolici e nei modi di rapportarsi; la comunicazione contribuisce a costruire, ma anche a mantenere e, in certi casi, modificare la realtà sociale e culturale nella quale siamo immersi nella vita quotidiana, con i suoi rituali, le sue routine, le sue regole. In questo senso la comunicazione entra a far parte della cultura condivisa.

Allora si raggiunge una riformulazione dell’assioma che dice “non è possibile non comunicare” trasformandolo in “è impossibile non comunicare inter culturalmente”, perché l’altro non è più altrove, ovvero perché vi sono continue occasioni di entrare in contatto con culture differenti.

Questo aspetto può essere affrontato sotto due prospettive diverse. La prima, di origine statunitense, pone l’accento sull’analisi delle difficoltà culturali che manifesta una persona nel comprendere una comunicazione ed è finalizzata ad adottare le strategie più efficaci per far “passare” la comunicazione.

Il secondo modello centra l’attenzione sul dialogo e pone l’accento sul riconoscimento dell’altro come interlocutore. La relazione che ne scaturisce è paritetica ed implica un processo negoziale fra i presupposti culturali delle persone che si incontrano, finalizzato a valorizzare i diversi punti di vista e, a partire dal proprio, si pone alla ricerca di punti di accordo.

La demenza nelle comunità traveller irlandesi in Gran Bretagna e il bisogno di servizi culturalmente attenti

TravellersLa demenza nelle comunità traveller irlandesi in Gran Bretagna e il bisogno di servizi culturalmente attenti

di Martina Zuliani

Quando parliamo di salute mentale e della relativa assistenza dobbiamo sempre considerare il contesto culturale e sociale in cui il paziente vive. Questo bisogno emerge chiaramente nell’articolo pubblicato online dal portale di Leed GATE (gypsy and Traveller exchange), un’associazione che si occupa di dialogo interculturale con la popolazione rom e traveller di Leed (Regno Unito) e dei loro bisogni.

L’articolo si focalizza soprattutto su i traveller, comunità nomade di etnia irlandese. I traveller sono nomadi per motivi economici, avendo storicamente praticato professioni che richiedevano spostamenti dell’intero nucleo famigliare e, nel tempo, hanno costruito delle tradizioni a se stante. Molti traveller irlandesi sono migrati nel Regno Unito durante l’epoca della grande carestia irlandese ma anche in anni recenti. Molti di essi sono ancora legati ad uno stile di vita nomade che li tiene isolati dal resto della società. Nel Regno Unito essi vivono una doppia discriminazione come nomadi, e quindi associati ad uno stile di vita “zingaro” e come irlandesi.

La salute degli appartenenti alla comunità traveller è tuttora un problema nel Regno Unito. Si calcola che le donne traveller abbiano un’aspettativa di vita di 12 anni inferiore rispetto a quella della popolazione maggioritaria e quella degli uomini sia di 10 anni inferiore. Per quanto riguarda la comunità traveller di Leeds, i dati statistici mostrano come solo il 3% della popolazione traveller viva oltre i 60 anni, contro un’aspettativa di vita di 78 anni per la popolazione maggioritaria.

Potrebbe dunque sembrare che i membri delle comunità traveller non siano a rischio di demenza, dato che essa viene spesso considerata come una malattia dovuta all’invecchiamento. La ricerca della dottoressa Mary Tilki condotta tra i traveller di Leed dimostra invece come essi siano soggetti a demenza ad un’età meno avanzata rispetto al resto della popolazione. Essi raramente si rivolgono alle strutture sanitarie, spesso per mancata conoscenza della malattia e del bisogno di cure.

Le cause della demenza in età non avanzata tra i membri della comunità traveller sono, secondo la dottoressa Tilki, legate alle malattie più comuni tra essi. La comunità traveller presenta infatti livelli molto alti di presenza di malattie cardio-vascolari, diabete, ipertensione e di disturbi quali la depressione e l’ansia.

La dottoressa Tilki evidenzia come le famiglie traveller abbiano più difficoltà rispetto alle altre nell’adottare metodi di resilienza verso la demenza e la malattia mentale di un loro membro. Spesso esse vivono in campi sosta privi di strutture igieniche o con servizi inadeguati. I bagni chimici forniti dai comuni non sono infatti pensati per persone con invalidità o bisognose di assistenza in generale. Inoltre, sia la bassa istruzione che le norme culturali delle comunità traveller pongono ostacoli nella comunicazione della malattia. La prima fa si che essi conoscano a sufficienza i servizi offerti e le procedure da seguire per prestare assistenza ad una persona con demenza. Le norme culturali, invece, portano i traveller a nascondere la malattia mentale di un loro congiunto per l’inaccettabilità di essa.

Inoltre, la mancanza di aree di sosta adeguate fa si che, nella mobilità, le persone con demenza siano a rischio di non venire seguite o di vagare e perdersi, soprattutto se pensiamo che le aree comunali vengono costruite in posti isolati.

Molti anziani traveller con disabilità sono costretti a trasferirsi in case, cosa che li porta a vivere fuori dal proprio contesto culturale ed a essere isolati rispetto alla propria comunità. Le loro famiglie li seguono e vengono in contatto con ulteriore ansia ed isolamento.

Per questi motivi la dottoressa Tilki suggerisce la ricerca e lo sviluppo di servizi sanitari adeguati allo stile di vita traveller che includano anche cure adeguate per le persone con demenza. Tali servizi dovranno essere sviluppati nel rispetto della cultura traveller e dello stile di vita nomade. In tal modo si riuscirà a fornire informazioni e raggiungere malati finora isolati e privi di assistenza. L’associazione Leed GATE e quella Irish in Britain, assieme ai residenti dell’area di sosta Cottingley Springs di Leed stanno lavorando all’identificazione di possibili modi di mettere in atto tali servizi.

Nella situazione italiana troviamo un 3% della popolazione sinta avente uno stile di vita nomade. Essi sono giostrai ed artisti circensi di nazionalità italiana. Anche qui si può vedere come essi non dispongano ne di strutture adeguate per l’abitare delle persone con disabilità ne di un servizio adeguato per l’assistenza alle persone nomadi con demenza. Essi possono essere dunque comparati ai traveller irlandesi. Lo sviluppo di un servizio di cura rivolto agli anziani sinti conducenti una vita nomade  andrebbe ad inserirsi in un approccio alla sanità e ai suoi servizi avente un carattere interculturale, cosa che, ai giorni nostri, risulta indispensabile per lo sviluppo di una società inclusiva.

L’articolo originale può essere letto in lingua inglese al seguente link.

Altre fonti:
Equality and human rights commission. 2009. Inequalities experienced by Gypsy and Traveller communities: a review. Disponibile in lingua inglese al seguente link.