Le guerre tribali moderne
Le guerre tribali moderne
di Ilwana Klinke
Com‘è possibile che in un Paese democratico e sviluppato, padri di famiglia, anziani e donne inizino ad avere atteggiamenti rabbiosi, offensivi e invadenti, fino a commettere dei danni materiali e prendersela con i membri di un altro gruppo come se si stessero sviluppando delle guerre tribali moderne? Succede, in effetti, che persone comuni finiscano sui giornali, in seguito ad atteggiamenti violenti nei confronti di un’altra comunità di persone. Loro stessi, come pure gli amici, i vicini, i malcapitati spettatori, si chiederanno successivamente, come si è potuto arrivare a tanto e che cosa abbia potuto scatenare tale aggressività in persone considerate “normali” e del solito assai pacifici.
Un esperimento
Un esperimento sociale su come si possano sviluppare guerre tribali moderne (Robbers Cave) di M. Sherif potrà darci qualche indicazione più che interessante a tal proposito. La ricerca si svolse nel 1954 con dodicenni di razza bianca, provenienti dalla classe media americana di fede protestante. Furono scelti 22 ragazzi che non si conoscevano tra di loro. Vennero distribuiti arbitrariamente in due gruppi. In una prima fase le due squadre furono tenute separate e ignoravano l’esistenza dell’altro gruppo. L’esperimento si svolse in un grande campo scout, dove i ragazzi facevano attività fisica, come nuoto e camminate, per creare uno spirito di gruppo. Ai ragazzi veniva chiesto di scegliere un nome per il loro gruppo (nome che veniva poi scritto anche sulle loro magliette) e di fabbricare una bandiera. La prima settimana i due gruppi non s’incontrarono mai. I ricercatori si limitarono ad osservare i ragazzi e intervenivano solo per lo stretto necessario.
Dopo una settimana, si decise di radunare i due gruppi, continuando con le attività e i giochi, ma stavolta si puntava sulla competizione. I membri della squadra vincente ricevettero tutti un premio, mentre i perdenti, se ne andarono con le mani vuote. Non erano previsti premi di consolazione, anzi, ad un certo punto, i ricercatori si erano perfino arrangiati per far giungere uno dei gruppi in ritardo a uno dei pasti, in modo che i primi arrivati spazzolarono via il cibo appositamente razionato dagli adulti. I ritardatari rimasero quindi con la pancia vuota. Tutto ciò, avvelenava pian piano l’ambiente e i ragazzi diventarono sempre più aggressivi. All’inizio le frustrazioni e la rabbia vennero espressi solo all’interno del proprio gruppo d’appartenenza. Poi i ragazzi cominciarono ad aggredire verbalmente gli avversari. Infine passavano agli atti e rovesciarono i letti, rubarono effetti personali e uno dei gruppi decise di bruciare la bandiera dei rivali. Tutto ciò in meno di una settimana. Un incremento di violenza che alcuni non si sarebbero aspettati, anche perché la settimana precedente questi stessi ragazzi convivevano in modo del tutto pacifico. Sherif attribuisce la causa di tale comportamento all’ambiente competitivo e alle risorse limitate.
Conclusioni
Al contrario di quello che in tanti pensano, l’aggressività può scatenarsi anche in persone del solito pacifiche e “normali”. Non bisogna essere né un piccolo bullo, né avere un passato pesante alle spalle. E’ altrettanto intrigante vedere la facilità con cui si riesce a manipolare le persone e tirar fuori un’aggressività latente. Difatti, chi teneva in mano i fili erano i ricercatori. Con poche mosse, senza intervenire direttamente sui rapporti dei giovani partecipanti, hanno trasformato dei ragazzi pacifici in “piccoli mostri”. Questo fatto dovrebbe farci riflettere. Prima di prendersela con un altro gruppo, sarebbe giudizioso capirne la vera causa, oppure analizzare se non si viene in qualche modo manipolato. L’aggressività è poi raramente la miglior soluzione, solo la più veloce. Spesso si agisce d’impulso invece di guardare alla situazione con un certo distacco. Riguardo alle critiche, e lasciando da parte l’aspetto etico e deontologico*, si potrebbe infatti sostenere che la situazione creata non corrispondeva alla realtà, poiché è difficile trovare gruppi così omogenei (ragazzi di 12 anni dello stesso ambiente socioculturale) che convivono in un ambiente chiuso senza contatto con altri membri della società. I ricercatori avrebbero, in effetti, dovuto tener conto dell’influenza che avrebbe potuto avere un adulto oppure la presenza di ragazze all’interno dei due gruppi.
Critica forse non più del tutto attuale poiché, oggigiorno, il mondo virtuale, si avvicina talvolta parecchio a questo modello. Esistono gruppi sul web che evolvono proprio tra di loro in un ambiente molto chiuso. La chiusura di un gruppo non permette ai suoi membri di visualizzare l’accaduto da un altro punto di vista, magari più distaccato. Sarebbe quindi giudizioso vegliare perché le comunità siano aperte e non lasciate troppo a se stesse. Infine, se i due gruppi avessero legato e si fossero sostenuti a vicenda, avrebbero probabilmente passato una vacanza più valorizzante. Lo spirito competitivo e le poche risorse non dovrebbero escludere la solidarietà sociale laddove possibile. * I ragazzi non furono informati che si trattava di un esperimento. Successivamente i ragazzi e le famiglie non sono stati aiutati e seguiti per elaborare il vissuto.