Collicolo superiore ed emergenza

Collicolo superiore ed emergenza

C’è uno stretto rapporto tra collicolo superiore ed emergenza. Il collicolo superiore non è una regola o una norma gerarchicamente superiore alle altre. Si tratta semplicemente di un piccola area del cervello. Posta sulla sommità del tronco encefalico, coinvolta nei movimenti di orientamento nello spazio e nella nostra stessa capacità di orientarci nello spazio. I suoi neuroni costituiscono una vera e propria mappa del mondo visivo.

Ruolo del collicolo superiore

 L’aspetto più interessante è che il collicolo superiore si attiva come risposta a un pericolo attraverso quella che possiamo individuare come “previsione dei movimenti attesi”. In sostanza l’immagine dell’oggetto si proietta sui neuroni del collicolo superiore, i quali interagiscono con quelli del collicolo inferiore. Un’iterazione molto importante perché questi ultimi ricevono informazioni dai suoni emessi dal medesimo oggetto. Questa interazione aumenta la capacità di individuare l’oggetto, la sua traiettoria e la sua possibile pericolosità.

Questa attività entra quindi a far parte della rete di difesa dai possibili pericoli della quale tradizionalmente sappiamo fa parte anche l’amigdala. Con la caratteristica di avere tempi di attivazione più rapidi dell’amigdala stessa, che, lo ricordiamo, è di circa 13 millisecondi. Tanto che una lesione al collicolo superiore indebolisce le attività di fuga o immobilizzazione risposte connesse alla presenza di un pericolo.

Non solo movimenti

 In particolare, il collicolo superiore si attiva quando percepisce un  movimento inatteso o anomalo: ad esempio un oggetto che ci sta cadendo addosso. In qualche modo, ci fa vedere il pericolo prima che l’immagine raggiunga le aree conticali più evolute.

Ma oggi sappiamo che la sua funzione va ben oltre. Percepisce anche la postura o una diversa espressione delle persone che ci circondano. Non riconosce l’identità del volto, ma, aspetto importante nelle situazioni critiche, il fatto che la persona sia spaventata. In questo senso possiamo dire che fa da specchio.

Una funzione da attivare positivamente

 Tutto questo il collicolo superiore lo mutua dall’esperienza fatta in situazioni precedenti, attivandosi ben prima di quella che poi noi chiamiamo reazione di paura.

Gli studi in questo campo sono molto importanti perché mostrano un altro ruolo che possono avere le esercitazioni all’interno delle aziende. Se le stesse sono progettate con attenzione è possibile fornire i debiti schemi di lettura dei movimenti e dei suoni all’area del collicolo. Sempre che si esca dalla semplice visione dell’esercitazione come momento di addestramento, per aiutare gli interessati a leggere e far propria l’esperienza vissuta. La narrazione di quanto è avvenuto nell’esercitazione è una lettura emotivamente positiva di quando è avvenuto e delle capacità di affrontarlo. Questo fornisce un ulteriore strumento di azione qualora si dovessero presentare analoghe situazione critiche.

E’ pur vero che il collicolo agisce ben prima della coscienza di quanto sta avvenendo. Ma costruire una traccia, anche inconsapevole, di rapporto tra collicolo superiore e risposta all’emergenza è certamente utile.

 Bibliografia

 Anastasio T. J., Patton P. E & Belkecem-Boussaid K. (2000), Using Bayer’s rule model multisensory enhancement in the superior colliculus, Neural Computation, 12, 1165-1187.

Cohn-Sheehy B. I., Delarazan A. I., Reagh Z. M., Crivelli-Decker J. E.,Kim K., Barnett A. J., Zacks J. M. & Ranganath C., (2021), The hippocampus constructs narrative memories across distant events, Current Biology, https://doi.org/10.1016/j.cub.2021.09.013.

Goldman-Rakic P.S. (1988), Topography of cognition: Parallel distibuted networks in primate association cortex, Annual Review of Neuroscinece, 11, 137-156.

Tamietto M., Cauda F., Corazzini L L. (2010), Collicular vision guides nonconscious behavior, Journal of Cognitive Neuroscience, 22 (5), 888-902.

Psicologia in emergenza

Psicologia in emergenza

Psicologia in emergenza.

Un evento dedicato alla riflessione sulla “psicologia in emergenza” promosso dall’Ordine degli Psicologi della Sardegna.

Il mio intervento ha il titolo “A lezione dal Coronavirus: i parametri della psicologia dell’emergenza”.

Venerdi 24 e sabato 25 settembre 2021.

La legge dei piccoli numeri

La legge dei piccoli numeri

La legge dei piccoli numeri indica (Kahneman, 2011) la tendenza che abbiamo a credere come statisticamente vere delle sequenze di piccole serie. Questo anche se ciò sarebbe vero solamente per serie molto più lunghe.

Si tratta di una tendenza che fa in modo che anche fenomeni del tutto casuali appaiono ai nostri occhi come un modello coerente. Ma, ancora di più, giustifica ogni parere senza la necessità di un confronto oggettivo.

Alcuni esempi

Un esempio è quello utilizzato da coloro che ci vendono i sistemi per vincere al lotto (ancora molto presenti nelle televisioni private in Italia). Farci credere che l’uscita di un numero ne richiami un altro è pura fantasia. Statisticamente la possibilità che esca la sequenza 1, 2, 3, 4 e 5 è la stessa della sequenza 48, 23, 65, 12, 9. Al nostro cervello sembrerà più probabile la seconda solo perché ci appare più tipica di un’estrazione casuale piuttosto che la prima. Ma dal punto di vista strettamente statistico ogni volta che viene estratto un numero, un’altri qualsiasi ha la stessa probabilità di uscire.

Analogamente possiamo pensare al gioco della roulette o gettare in alto di una moneta.

Troviamo questa tendenza anche in molti commenti sportivi quando si attribuisce il valore di un giocatore attraverso una sequenza limitata nel tempo dei suoi gesti atletici. Quante volte abbiamo sentito parlare di “mano calda” riferito al giocatore di pallacanestro o di “fiuto del gol” per il giocatore di calcio. In effetti, queste valutazioni vengono prodotte su un numero limitato di osservazioni e quindi nulla dicono in realtà sul valore complessivo di quell’atleta.

Per enfatizzare si racconta di un matematico molto prudente che quando saliva a bordo di un aereo portava con sé una bomba. Il suo ragionamento era “la probabilità che su un aereo ci sia una bomba sono molto poche. Di certo la probabilità che su un aereo ci siano due bombe è pressoché nulla. Quindi posso stare tranquillo”.

I piccoli numeri e coronavirus

Purtroppo questa legge dei piccoli numeri sembra imperare anche nelle letture più diffuse circa i coronavirus. Qui interviene la sostanziale assenza nel nostro paese di una statistica sanitaria forte e centralizzata che ci permetta di ragionare con un po’ di razionalità. Così, utilizzando la legge dei piccoli numeri tanti esperti possono esprimere giudizi senza il timore di essere smentiti o, almeno di confrontarsi, con dei dati oggettivi. Indubbiamente un vantaggio per chi parla e uno svantaggio per tutti.

Le emozioni sono utili

Le emozioni sono utili

In questi giorni, caratterizzati dal Covid19, ci sentiamo spesso invitati a non avere paura, a controllare le nostre emozioni: ma le emozioni sono utili. Per la serie #percrescere, parliamone!

 

 Le emozione come supporto alle decisioni

Le reazioni emotive sono utili nell’elaborazione delle informazioni legate agli stimoli che provengono dall’ambiente (Zajonc, 1980) e fanno parte integrante del processo decisionale. L’emozione, infatti, è uno strumento per la decisione, è il potente mezzo di previsione di un cervello che anticipa e progetta le proprie intenzioni.

Come sottolineano Gigerenzer e Todd (1999), le emozioni ci aiutano a far fronte ai vari livelli di complessità che ci troviamo ad affrontare accelerando la spinta verso la soluzione del problema. Così la paura ci suggerisce che c’è un pericolo dal quale dobbiamo difenderci o la presenza di un nemico che può farci del male.

 Le emozioni nell’evoluzione umana

 Sotto questo punto di vista gli aspetti cognitivi ed emotivi partecipano allo stesso processo di adattamento all’ambiente sviluppato nel corso di milioni di anni. Hanno costituito una sorta di abbinamento vincente che ha permesso all’uo­mo di sopravvivere (Hastie, 2001). Le emozioni non sono forze indomate o vestigia del nostro passato animale, ma hanno sempre la funzione di proteg­gerci.

Alcuni studiosi di paleoneurologia, infatti, affermano che, legata alla sopravvivenza, si sia sviluppata una selezione a vantaggio della specie che ha sviluppato nel cervello una capacità di individuare prima di altre i segni della presenza di un pericolo e a reagire attraverso due fondamentali meccanismi: quello della fuga o dell’attacco. Da questo si può capire come la paura (fuga) e la rabbia (attacco) siano prima di tutto funzionamenti neurobiologici automatici. Sta poi alla persona imparare a controllarli.

 La paura

 La reazione fondamentale di fronte al presentarsi di un possibile pericolo è la paura.  Si tratta di una reazione normale del cervello che nel corso dell’evoluzione ha imparato ad attivarsi automaticamente quando c’è un rischio per l’incolumità. La paura quindi non è da intendersi come segno di debolezza, ma rispecchia un meccanismo mentale cognitivo che abbiamo ereditato dai nostri antenati.

Possiamo quindi dire che la paura è una reazione adattativa molto importante, senza la quale non ci attiveremmo di fronte a un’emergenza. Quello che conta è che la persona immersa in questa emozione trovi delle risposte efficaci, altrimenti prevarrà l’aspetto ansioso e la possibilità di accedere a soluzioni efficaci diminuirà progressivamente, perché l’ansia diminuisce le capacità cognitive.

 

 Le emozioni sono utili

Le emozioni sono utili, l’importante è imparare a non tenerle e a non sentirsi giudicati per provarle. Chi nega il corretto spazio alle emozioni è destinato a soccombere: #percrescere impariamo ad ascoltarle.

 Zuliani Antonio

 

Bibliografia

Gigerenzer G., Todd P..M., ABC Research Group. (1999). Simple heuristics that make us smart, Oxford University Press, New York.

Hastie R. (2001). Problems for judgment and decision making, Annual Review of Psychology, 52, 653-683.

Zajonc R.B. (1980). Feeling and thinking: Preferences need no inferences, American Psychologist, 35, 151-175.

Zuliani A. (2017). Azioni e Reazioni nell’emergenza, EPC Editore, Roma.

Pianificare con accuratezza

Pianificare con accuratezza

Pianificare con accuratezza è uno dei compiti più difficili.

Ce ne accorgiamo ogni qual volta programmiamo di realizzare un progetto nuovo, che si tratti di una dieta, del rimettersi in forma o di imparare una lingua straniera o di un progetto di lavoro.

Lo scacco matto di molti progetti sta nel sottovalutare i tempi effettivamente necessari per raggiungere il risultato. Solitamente, non sono errati i risultati, ma la pianificazione dei tempi e le previsioni.

Motterlini (2008) ricorda la “Legge di Hofstadter”che recita “per fare una cosa ci vuole sempre più tempo di quanto si pensi, anche tenendo conto della Legge di Hofstadter”.

In altri termini, ogni programmazione rischia di fallire a causa dei tempi previsti per l’attuazione, che sono sempre più lunghi di quanto si desideri anche quando, e questo è il paradosso della Legge di Hofstadter, si tiene conto che siano lunghi.

Difficoltà a pianificare

La difficoltà di pianificare con accuratezza è stata analizzata da Buehler, Griffin e Ross (1994).

Gli autori mettono in luce che le persone:

  • sottovalutano i tempi propri per completare un programma, ma non quello degli altri,
  • per generare le loro previsioni si basano prevalentemente sugli scenari presenti e non utilizzano efficacemente le passate esperienze,
  • attribuiscono gli insuccessi passati a fattori esterni o transitori e questo porta a diminuire la possibilità di imparare dai propri errori.

Messa così sembra che quando facciamo delle previsioni e delle pianificazioni ci troviamo inesorabilmente sotto lo scacco di questi limiti.

Lo spacchettamento

Arrendersi dunque! No, perché possiamo prendere a prestito quanto scrivono Rottensteich e Tversky (1997) circa la possibilità di utilizzare la strategia dello spacchettamento. Gli autori scrivono che la probabilità di giudicare i tempi per realizzare un evento generalmente aumenta quando la sua descrizione viene scompattata in componenti disgiunte.

Adottando questa prospettiva, spacchettiamo tutti i passaggi previsti all’interno di un progetto e così sarà possibile ottenere una valutazione più attenta sia della probabilità di realizzarlo, sia del tempo necessario per farlo. In questo modo tappe e tempi previsti inevitabilmente aumenteranno. Ma saranno più rispondenti alla realtà e ci si esporrà molto meno al rischio della demotivazione che interviene quando si constata di non aver conseguito i risultati nei tempi previsti.

Perciò “anno nuovo, vita nuova” può funzionare se riusciamo a valutare con accuratezza i veri tempi per realizzare le aspettative connesse a questa frase. Insegnamento molto più importante se lo colleghiamo non tanto a un semplice progetto di dieta, bensì alla complessa e decisiva esigenza di pianificare con accuratezza l’organizzazione di un progetto aziendale.

 Bibliografia

Buehler R., Griffin D. & Ross M. (1994), Exploring the Planning Fallacy: Why perplesso underestimate their task completion times, Journal of Personality and Social Psychology, 67 (3), 366-381.

Motterlini M. (2008), Trappole mentali. Come difendersi dalle proprie illusioni e dagli inganni altrui, BUR, Milano.

Rottensteich Y. & Tversky A. (1997), Unpacking, repacking and anchoring: advances in support theory, Psychological Review, 104, 406-415.

Favorire i modelli mentali

Favorire i modelli mentali

Favorire i modelli mentali

di Antonio Zuliani

 

La formazione del personale chiamato ad affrontare situazioni di emergenza deve tenere conto dei modelli di apprendimento che il nostro cervello utilizza e di favorire i migliori modelli mentali. Per quanto riguarda in particolare l’apprendimento delle azioni da mettere in campo occorre ricordare come affermano Ericsson, Roring e Kiruthiga (2007) che limitarsi a ripetere continuamente una stessa attività non garantisce alcun miglioramento della sua esecuzione.

L’esercizio, per essere efficace, deve migliorare la memoria della prestazione e diventare un modello mentale. In altri termini, l’esercizio deve generare un insieme di conoscenze specialistiche (una biblioteca) nella mente della persona che si esercita.

L’acquisizione di questi modelli mentali deve essere promossa attraverso la costruzione di legami di senso tra la parte teorica e quella pratica. Ecco perché la formazione dovrebbe avvenire in modo da alternare prontamente le parti teoriche con quelle pratiche. Gli studi di neuropsicologia e cognitivi dimostrano che tenere queste parti separate, anche solo di poche ore, induce il cervello delle persone a non costruire le connessioni di senso tra teoria e pratica.

Non si tratta infatti di “migliorare la memoria” dei soggetti interessati, ma di fornire loro dei modelli mentali utilizzabili.

La ricerca di Chase e Simon

Questo fatto è mostrato da una ricerca di Chase e Simon (1973) che ha riguardato i giocatori di scacchi. A due gruppi di scacchisti è stato chiesto di dare una rapida occhiata a una scacchiera che presentava una situazione tipica di una partita. Un gruppo era costruito da super esperti con almeno 30.000 ore di gioco alle spalle; il secondo gruppo era composto da giocatori meno esperti con circa 3.000 ore di gioco.

Dopo aver dato una rapida occhiata alla scacchiera, i componenti del primo gruppo erano in grado di ricordare la posizione di ogni pezzo quasi alla perfezione; il secondo gruppo aveva un’accuratezza molto inferiore che variava dal 50 al 70%.

La differenza non è determinata dal fatto che i membri del primo gruppo avessero una memoria migliore di quella dei membri dell’altro gruppo, ma piuttosto dal fatto che erano in grado di richiamare nella loro testa dei modelli mentali che li permettevano di riconoscere e ricordare la posizione dei pezzi.

Questo è stato dimostrato perché in un’altra ricerca i pezzi sono stati disposti sulla scacchiera alla rinfusa, cioè in posizioni che non corrispondevano a nessuno schema di gioco. In questo caso i membri del primo gruppo non hanno avuto prestazioni migliori rispetto agli altri.

Occorre inoltre ricordare che in assenza di questo lavoro atto a favorie i modelli mentali più adeguati il presentarsi di situazioni complesse mette in scacco il cervello e lo spinge verso soluzioni conservative.

Bibliografia

Ericsson KA., Roring RW. & Kiruthiga N. (2007). Giftedness and evidence for reproducibly superior performance: an account based on the expert performance framework. High Ability Studies, 18(1), 3-56.

Chase WG. & Simon HA. (1973). Perception in chess. Cognitive Psychology, 4(1), 55-81.

Le campagne sociali

Le campagne sociali

Le campagne sociali

di Antonio Zuliani

 

Le campagne sociali che puntano a modificare i comportamenti nelle persone, chiedendo spesso sacrifici e cambiamenti nel comportamento, sono sempre più frequenti. Puntare su compensazioni economiche rispetto ai sacrifici, ad esempio accettare la presenza di un inceneritore, è spesso improduttivo.

Per capire meglio questa affermazione presentiamo la sintesi di alcune ricerche (vedi bibliografia).

Il centro dell’altruismo

Le ricerche di Gnezy e Rustichini (2000) e di Knutson e altri (2001) monitorando l’attività cerebrale di persone che erano concentrate sul valore sociale delle loro scelte rispetto a persone che erano attente al valore economico, hanno evidenziato che quando una persona concentra la sua attenzione sul valore economico si attiva l’area cerebrale che prende il nome di nucleus accumbens. L’attivazione di quest’area la spinge a rilasciare la dopamina che genera una sensazione di appagamento e di estasi.

Quando invece viene attivata l’attenzione sui processi sociali è un’altra la regione del cervello che viene attivata, ovvero il solco temporale posteriore superiore, “centro dell’altruismo”.

Il vero problema è che quelli che possiamo chiamare “centro del piacere” e “centro dell’altruismo” non possono funzionare entrambi nello stesso momento, per cui il controllo della situazione può essere tenuto soltanto dall’uno o dall’altra di queste aree cerebrali attivate.

Dalle ricerche pubblicate sembra che quando questi due centri vengono stimolati contemporaneamente, quello del piacere (nucleus accumbens) riesca a prendere il sopravvento e a dominare sul secondo.

Durante una campagna di sensibilizzazione, una prima conclusione è quella di non utilizzare contemporaneamente entrambe le motivazioni (quella altruistica e quella del guadagno personale) perché ciò non sortisce l’effetto di cumularne i vantaggi, ma addirittura tende a cancellare le motivazioni sociali ed altruistiche: la persona si concentrerà esclusivamente sui vantaggi personali ed economici.

Si potrebbe quindi pensare che sia utile puntare solamente sulla motivazione economica: tuttavia, difficilmente sarà possibile prevedere “un premio” sufficientemente allettante da indurre una persona a modificare i suoi comportamenti o addirittura ad assumersi dei rischi a favore del bene collettivo; ad esempio accettare un inceneritore vicino a casa.

La ricerca di Frey e Oberhozer-Gee

 La ricerca di Frey e Oberhozer-Gee (1997) mostra invece più vantaggioso puntare sulla necessità sociale che qualcuno si assuma l’incarico di un rischio a vantaggio di tutta la comunità, piuttosto che pensare a delle ricompense economiche che difficilmente potrebbero essere considerate adeguate per il rischio che si chiede di correre.

I due ricercatori sondarono la disponibilità degli abitanti di due paesi svizzeri di accettare che nel loro territorio fossero ospitate le scorie nucleari a basso e medio livello di radioattività prodotte dalla loro nazione. Facendo leva sulla disponibilità a farsi carico del bene comune, il 50.8% degli abitanti si disse disponibile.

Quando fu aggiunto un risarcimento di 5.000 franchi all’anno per ogni persona, la percentuale dei disponibili scese al 24,6% e non aumentò al crescere della cifra promessa. Questo perché mettere l’accento sul compenso in denaro sottolinea che il rischio viene “pagato” e la salute non ha prezzo! Se poi il compenso aumenta si sottende l’idea che anche il rischio aumenti di conseguenza.

Le campagne sociali vanno quindi sempre ben ponderate e le motivazioni altruistiche sembrano, alla fine, essere quelle più rilevanti.

Bibliografia

Frey B. & Oberhozer-Gee F. (1997). The cost of price incentives: an empirical analysis of motivation crowding-out, American Economic Review, 87, 746-755.

Gnezy U. & Rustichini A. (2000). Pay enough or don’t pay at all, Quarterly journal of Economics, 115, 791-810.

Knutson B., Adams C., Fong G. & Hommer D. (2001). Anticipation of increasing monetary reward selectively recruits nucleus accumbens, Journal of neuroscience, 21, 1-5.