Parole utilizzate

Parole utilizzate

Le parole non sono mai neutre nel descrivere una situazione, siano esse scritte o pronunciate, tanto da risultare decisive per le reazioni che provocano. Ovviamente, sempre che sia chiaro e condiviso il contesto all’interno del quale vengono utilizzate e dello specifico significato che vengono ad assumere.

Vediamo due esempi tratti da due pilastri della letteratura italiana, ma lo stesso varrebbe per ogni contesto relazionale.

Alessandro Manzoni (I promessi sposi)

“La sventurata rispose”, sono le parole con le quali Manzoni tratteggia l’inizio dei rapporti tra Geltrude e Egisto. In quel “sventurata” c’è sia la condanna sia la compassione che lo scrittore manifesta per la futura monaca di Monza.

Edmondo De Amicis (Cuore)

Solo condanna troviamo in quel “E l’infame sorrise” con cui De Amicis descrive la reazione di Franti quando la madre visita la scuola e ha un colloquio con il direttore. Una reazione così particolare che il direttore stesso concluderà l’incontro con un’altra frase di condanna senza appello: con il melodrammatico; “Franti, tu uccidi tua madre.

Come detto, non contano solo le parole, ma anche il fatto che le stesse acquisiscono un significato specifico perché la visione morale tra gli scrittori, che le scrivono, e i loro lettori è sostanzialmente la stessa.

Attenzione ai contesti

Quanto affermato mostra come le stesse parole cambierebbero di significato se fossero pronunciate in un contesto sociale e morale diverso. Di questo occorre tenere debitamente conto per un’efficace comunicazione che punti alla chiarezza non solo del linguaggio, ma anche del significato implicito della comunicazione.

Se le parole “la sventurata rispose” fossero state utilizzate da Alessandro Manzoni come il prologo alla sceneggiatura di un film hard, la parola “sventurata” acquisterebbe ben altro significato. Analogamente accadrebbe a De Amicis, visto che quanto detto da Franti acquisterebbe un valore ben diverso se visto alla luce di quell’incontro con la madre visto sotto i connotati di un racconto Kitsch.

La parole non sono mai neutrali

La parole non sono mai neutrali

Le parole non sono mai neutrali, ognuna di esse implica scenari semantici capaci di evocare immagini ed emozioni molto importanti in chi le ascolta. Questo è un tema che abbiamo spesso affrontato nel nostro lavoro, focalizzato sulla sicurezza sul lavoro e sulle risposte delle persone alle situazioni di emergenza, riscontrando come linguaggi troppo specialistici creano vissuti molto diversi tra chi parla e chi ascolta.

Le parole non sono mai del tutto neutrali; ogni parola ha un suo peso, anche quelle che sembrano solo “tecniche”.

Le parole di oggi.

Proprio in questi giorni questa realtà è sotto gli occhi di tutti. Sui media compaiono parole, tante parole, e con frequenza sempre maggiore, di cui non sappiamo bene il significato. Occorre chiedersi cosa suscita in tutti noi sentire, e a volte pronunciare, parole come guerra, terza guerra mondiale, bomba termonucleare e così via.

Immagini difficili da collocare perché, per nostra fortuna, apparteniamo a una generazione che non ha fatto esperienza di cosa significhino. Altre parole evocano scenari che ci appaiono più a fuoco. La parola Chernobyl ricorda la relativa fuga radioattiva che sta richiamando alla memoria una paura vissuta. Non una paura qualsiasi, ma, lo scrivevo allora, che evocava ed evoca scenari inquietanti perché le “radiazioni” sono invisibili. Di fronte all’invisibile ci si sente particolarmente impotenti, ma “occorre” fare qualche cosa. Ecco allora la ricerca di approvvigionarsi di compresse di iodio. Non importa se la loro efficacia è dubbia: sento che ho fatto qualche cosa.

Parole: tra paura e angoscia.

 Una parola che evoca paura, lo sa bene chi si occupa di sicurezza, attiva delle reazioni positive, perché la paura è una sorta di segnale di allarme che spinge a reagire. Senza questa attivazione si rischia di rimanere inermi di fronte a una fonte di pericolo.

Il nostro cervello è costantemente alla ricerca di risposte agli stimoli che gli giungono (e quindi anche alle parole) e per farlo utilizza l’esperienza che ne ha. Altrimenti le stesse creano una confusione difficile da tollerare.

Oggi la difficoltà sta proprio qui: come si collocano parole che evocano scenari di cui non abbiamo esperienza. Come si trovano utili e “ragionevoli” risposte?

Solo poche settimane fà stavamo deprecando la troppa facilità con la quale gli “esperti” di turno parlavano della pandemia. Ora gli esperti sono cambiati, ma la scarsa considerazione per l’angoscia che le parole possono creare non è cambiata.

Se la paura, come detto, suscita un movimento sano verso la soluzione dell’evento che la determina, l’angoscia no! Da un lato suscita blocca e congela ogni movimento attivo verso la soluzione. Sembra evocare piuttosto un mitico “speriamo che io me la cavo” (frase emblematica con la quale un maestro napoletano fotografava la reazione dei suoi scolari di fronte al degrado della città). Dall’altro lato suscita una disperazione che spinge ad accattare ogni soluzioni che la cancelli.

La soluzione non è mai nella censura delle parole, ma occorre trovare il modo per aiutare tutti a capirne il significato, quel significato emotivo che suscitano in tutti noi. Più siamo spinti a nasconderlo, a pensare che riguardi una nostra personale debolezza, e più diventa pesante da vivere.

Condividere il significato della parole.

 Quello di cui abbiamo tutti bisogno è di trovare modo di far emergere tutti gli scenari emotivi che ognuna di queste parole suscita in noi. proprio perché le parole non sono mai neutrali. Lo dobbiamo a noi stessi per arrivare a soluzioni che non seguono solo l’onda delle emozioni. Lo dobbiamo ai nostri figli che sono sempre più spaventati e spinti a una naturale regressione emotiva e cognitiva. Lo spazio è quello dell’incontro, della condivisione. Attivarlo non è facile, ma lo dobbiamo alla speranza per il futuro.

Come fare. Intanto parlandone, tra di noi, in famiglia, tra amici. In attesa che il mondo della politica comprenda che tutti noi non abbiamo solo bisogno di strutture e servizi, ma anche di luoghi di incontro che non possono essere delegati solo all’utilizzo dei social. Parlarne ci fa sentire meno soli in specie se qualcuno ci aiuta a cercare assieme delle soluzioni condivise. Facile? No, ma oggi più che mai necessario. Il nostro cervello impara dall’esperienza.

Memoria

Memoria

La memoria risiede al centro della nostra identità, stabilendo una singola, continua percezione di noi stessi. Possiamo quindi dire che la memoria garantisce la continuità della nostra vita. Ci fornisce un quadro coerente del passato che colloca in prospettiva le esperienze in corso. Un quadro che può non essere razionale o accurato, ma che comunque permane. Senza la forza agglomerante della memoria, le esperienze sarebbero scisse in tanti frammenti quanti sono i momenti della vita.

Senza la possibilità di compiere viaggi mentali nel tempo, conferita dalla memoria, non avremmo consapevolezza della nostra storia personale. Questo ci impedirebbe anche di ricordare le gioie che fungono da nette pietre miliari della nostra esistenza.

La memoria non è una videoregistrazione

D’altra parte, questa stessa memoria non è certo un’accurata videoregistrazione di ogni singolo momento della vostra vita. Si tratta di un fragile stato cerebrale di un tempo passato che deve essere resuscitato perché ce ne possiamo ricordare. Certo dimentichiamo molte cose, ma il nemico del ricordo non è il tempo ma gli altri ricordi. Ogni nuovo avvenimento stabilisce nuove connessioni tra il numero finito dei neuroni. Il fatto sorprendente è che un ricordo sbiadito a noi non appare tale: noi crediamo, o perlomeno presupponiamo, che l’intero quadro sia ancora là. Il problema è che questa ricostruzione  può talvolta confinare con la mitologia. Quando passiamo in rassegna i ricordi della nostra vita, dovremmo farlo con la consapevolezza che non tutti i particolari sono accurati. Alcuni di essi provengono da storie su noi stessi che la gente ci ha raccontato; altri sono influenzati da quello che pensavamo avrebbe dovuto accadere.

Quindi nulla da stupirci se, anche a fronte di uno stesso evento, i testimoni lo ricordano in modo diverso. È come se ogni cervello stesse raccontando una storia leggermente diversa. Perché i loro cervelli, che sono diversi, hanno esperienze soggettive diverse.

 Viaggiare nel futuro per decidere

Oltre a ricordare il passato, la memoria ha la funzione di farci viaggiare anche nel futuro, grazie alle esperienza passate.

Bertoli si cantava come “un guerriero senza patria e senza spada/con un piede nel passato/ e lo sguardo diritto nel futuro”. Lewis Carol ha scritto “è una memoria ben misera quella che ricorda solo quello che è già avvenuto”.

Quindi, quando siamo alle prese con una decisione, il nostro cervello si proietta nel futuro. Con i lobi prefrontali e frontali simula i diversi risultati per generare un modello di come potrebbe essere il nostro futuro. Questo permette, ad esempio, di stimare quale sarebbe l’esito in ciascuno di quei potenziali futuri.

Certo non si tratta di previsioni perfettamente accurate perché ogni previsione è basata solo sulle proprie esperienze passate e sugli attuali modelli di come va il mondo. Ecco perché è importante elaborare le esperienze che stiamo vivendo. In questo modo ci diamo una possibilità in più di affrontare il futuro con meno ansia e meno condizionamenti.

Fatica da pandemia

Fatica da pandemia

Questo momento di diffusione del coronavirus è caratterizzato da una forte fatica da pandemia.

Incertezza

L’incertezza della situazione ne è la prima causa. Incertezza sulle modalità del contagio, sull’individuazione dei pericoli, sullo stesso vaccino, eccetera. Il nostro cervello tollera male l’incertezza tanto che preferisce funzionare ricercando un rapporto causa effetto certo e lineare. Questa è forse anche una ragione del successo mediatico di tanti esperti che forniscono interpretazioni “certe” su quello che sta accadendo. Paradossalmente noi preferiamo avere di fronte una risposta negativa piuttosto che vivere nell’incertezza.

Difficoltà nel cambiare routine

Il secondo aspetto riguarda la difficoltà che stiamo vivendo di cambiare le routine personali e di lavoro. Pensiamo all’utilizzo delle mascherine, della distanza pandemica (frase che preferisco a “sociale”), eccetera. Sono gesti che abbiamo imparato. Ma il fatto stesso che ci accorgiamo di metterli in atto indica che non sono automatici e richiedono un dispendio di energia.

Deformazione del senso del tempo

Infine la deformazione del senso del tempo che stiamo sperimentando in questa fase, e in maniere particolare chi si trova a lavorare da casa. Proprio in queste condizioni il tempo sembra a volte rallentarsi e a volte accelerare con modalità fuori dal controllo dei singoli. Si tratta di una deformazione significativa rispetto al rapporto con il tempo che siamo abituati a vivere e a gestire.

Effetti a medio e lungo termine

Due sono gli effetti più significativi di questa fatica da pandemia: la diminuzione della disponibile a seguire le regole e della solidarietà sociale.

La crescente intolleranza verso le regole di difesa dal contagio è un aspetto che non riguarda solo i negazionismi o soggetti che definiamo “irresponsabili”. Sembra trovare le sue radici nell’idea che “tanto non ci si può fare nulla” oppure che si è più forti del virus stesso. Aspetti legati alla componente angosciosa determinata dalla pandemia che può portare effetti negativi sulle stesse procedure anti Covid.

La diminuzione della solidarietà sociale ha trovato una prima manifestazione in coloro che hanno protestato per la chiusura delle loro attività economiche mentre altre sono rimaste aperte.  Lo vediamo ora, in modo più inquietante, nella indisponibilità manifestata in alcune zone italiane nel ricoverare nei propri ospedalieri malati provenienti da altri territori.

Si tratta di effetti che vanno intercettati per tempo perché potrebbero determinare contraccolpi nella diffusione della pandemia, ma anche un mutare dello stato delle relazioni sociali. Effetti che si protrarranno per un tempo ben più lungo del termine della pandemia. Una fatica da pandemia da non sottovalutare.

Sul tema si possono vedere tre brevi video andando al canale YouTube di StudioZuliani

Processi decisionali e pandemia

Processi decisionali e pandemia

Questa pandemia sta mettendo in luce alcune caratteristiche dei processi decisionali. Metterle in luce per imparare da quello che stiamo vivendo, per apprendere lezioni che possono essere utili per il futuro per prendere decisioni difficili.

La fatica decisionale

 Un aspetto che è sotto gli occhi di tutti si chiama fatica decisionale (decision fatigue). Si tratta di una fatica nel prendere delle decisioni che deriva dall’insicurezza. Di questi tempi non sapere esattamente quali siano le soluzioni migliori, le più adatte a combattere la pandemia.

Molti possono sperare che le cose si sistemino da soli: il virus sparirà! O che arrivi un vaccino che lo debelli velocemente.

A peggiorare le cose c’è il fatto che qui non stiamo prendendo decisioni relative a cosa mangiare questa sera, ma alla nostra stessa sopravvivenza. E l’urgenza legata all’ansia non aiuta.

In questi casi cresce il bisogno di raccogliere maggiori informazioni per poter alla fine decidere con certezza. Ecco allora l’ascoltare l’esperto di turno che spesso vive di maggior popolarità nella misura in cui le sue tesi sono più radicali e definitive. Il nostro cervello ama pensare che si sia sempre una soluzione semplice che non lo affatichi troppo. Non importa quanto negativa essa possa apparire: l’incertezza provoca una sofferenza spesso intollerabile.

La paralisi decisionale

Ma tutte le ricerche di informazioni e di notizie possono alla fine produrre l’effetto contrario. Ci possono portare alla paralisi decisionale. Proprio perché quando abbiamo troppe informazioni a nostra disposizione non sappiamo più che pesci pigliare. E qui si rischia di aprire un circolo vizioso: continuiamo a cercare nuove informazioni, a soffermarci anche su dettagli secondari, aumentando la fatica, l’indecisione e la paralisi. Se trasferiamo questo meccanismo dalla singola persona al gruppo possiamo arrivare a un blocco decisionale collettivo.

Una strategia che spesso utilizziamo in queste circostanze è quella del rinvio, dell’attendere che siano altri a decidere. Straordinaria soluzione che ci permette poi di dire “hai sbagliato, come hai fatto a non capire, io avrei fatto in un’altra maniera!”.

Salvo poi che la situazione spesso non si risolve da sola e le decisioni si devono prendere, e quelle prese all’ultimo istante sono spesso quelle più pericolose e dense di possibilità di errore.

Rompere la paralisi decisionale

 Torneremo sul tema. Qui soffermiamoci su una proposta che può essere utile per rompere la paralisi decisionale e migliorare i processi decisionali. Scrivete su dei foglietti le diverse decisioni da prendere e poi pescatene uno (se le alternative sono solo due potere usare anche una moneta con il classico testa o croce). Affidarsi quindi solo alla sorte? No! Mentre state pescando il bigliettino ascoltate dentro di voi quello che vorreste uscisse. Almeno sarete consapevoli di quello che è il vostro desiderio interiore e valutatene l’importanza. Perché, in ogni caso, sarà lui a guidare i nostri processi decisionali: saperlo può aiutare almeno a non ingannarci.

Memoria tra realtà e fantasia

Memoria tra realtà e fantasia

Spesso constatiamo che è difficile far discernere la nostra memoria tra realtà e fantasia.

Quando recuperiamo un’informazione dalla memoria occorre considerare che il nostro cervello non è strutturato per riconoscere la differenza tra un’esperienza veramente accaduta e un’esperienza immaginata. In altri termini non c’è nessuna area neuronale specificatamente adibita a registrare i ricordi di fatti veramente accaduti o immaginati.

 Questo fatto acquista una significativa importanza quando si tenta di ricostruire un incidente o un infortunio, in specie se accaduto all’interno di una situazione ordinaria.

 Il meccanismo delle memoria.

 Per fare un esempio proviamo a pensare a ieri mattina. Certamente un fatto accaduto è l’essersi alzati dal letto, questo fatto è stato registrato nella memoria a lungo termine e può essere facilmente recuperato. Successivamente, con tutta probabilità trattandosi di un prodotto che c’è in casa e di un gesto facilmente agito ogni mattina, ci siamo fatti un caffè.

Se andiamo ai ricordi di ieri mattina, i gesti di alzarsi dal letto e farsi un caffè appaiono nella memoria sullo stesso piano: entrambi reali. Il primo è certamente accaduto, altrimenti saremo rimasti a letto tutto il giorno. Ma quale certezza c’è che il secondo sia veramente accaduto o che recuperiamo questo ricordo perché plausibile, ordinario, ma forse non avvenuto proprio ieri mattina?

 È proprio l’ordinarietà, l’abitudinarietà e la consequenzialità dei due gesti ce li fanno apparire, nella nostra memoria, come entrambi reali. Al punto che saremmo disposti a testimoniare che è andata proprio così. Perché solitamente così accade.

 Strategie per ricordare

 In fondo la differenza tra questi due ricordi è molto sottile, ma può essere recuperata cercando di rintracciare le singole tracce sensoriali.  Si può provare a localizzare ricordi all’interno del campo visivo (ad esempio di che colore e dove era la tazzina di caffè) o provando a ricordare i suoni associati ai due diversi ricordi.

È un percorso molto delicato, ma utile da conoscere per comprendere le dinamiche di un evento quando appaiono diverse da quello che la memoria ricorda.

 Il modo in cui si conduce un’indagine è decisivo per far emergere quello che è veramente accaduto (Zuliani e Santoro, 2019). Piccole attenzioni relazionali e tecniche, un volta apprese, possono migliorare la capacità di comprendere e di aiutare gli altri a ricordare ciò che è accaduto. In questo modo è possibile discernere la memoria tra realtà e fantasia.

 Bibliografia

 Zuliani A. & Santoro D. (2019). La variabilità della prestazione per migliorare la sicurezza sul lavoro. Metodi e strumenti. Il Performance Variability Model, Wolters Kluwer.

Case history

Case history

Case history

 

Il case history è un modello formativo che prevede di discutere in gruppo casi realmente accaduti per coglierne gli aspetti positivi e negativi. Come già discusso in precedenza (Zuliani, 2017) analizzare le decisioni prese e le soluzioni adottate arricchisce le competenze dei partecipanti. Inoltre, lo studio degli errori commessi aiuta a metterli in guardia rispetto a tutte le trappole culturali, cognitive e procedurali insite in ogni situazione di emergenza.

Un limite però di questa metodologia è il fatto che i partecipanti non sono sufficientemente stimolati a confrontarsi su come loro stessi avrebbero reagito in quelle determinate situazioni. Come vedremo, conoscere l’esito dell’evento influenza la modalità con la quale il partecipante affronta l’analisi.

 

Uno studio illuminante

 

Uno studio di Kamin e Rachlinski (1995) mette ben in evidenza il limite del modello formativo basato sul case hisory.

Gli studiosi riprendono un evento accaduto circa trent’anni prima, quando una barca, rompendo gli ormeggi per la forza di un fiume, era andata a incagliarsi sotto un ponte provocando l’inondazione della città.

Il caso viene riproposto a due gruppi di studenti chiedendo loro di stimare la probabilità dell’inondazione che si sarebbe determinata a causa dell’ostruzione, l’entità dei danni che ne sarebbero conseguiti alla città e le conseguenti responsabilità.

Ai gruppi furono date informazioni in parte diverse. Al primo furono forniti dati sulle condizioni meteorologiche, sullo stato delle funi dell’imbarcazione che determinò l’ostruzione del ponte e sull’assenza di personale che potesse vigilare sul funzionamento del ponte stesso.

Al secondo gruppo furono date anche informazioni sul fatto che ci fu veramente un’inondazione a causa di questa ostruzione e una relazione precisa sui danni conseguenti.

Ciò che ne è scaturito fu che nel primo gruppo solo il 34% dei membri ritenne che l’inondazione fosse probabile e la maggioranza (76%) concluse che non si potesse attribuire nessuna responsabilità per questo fatto.

Di contro il 57% dei membri del secondo gruppo giudicò il rischio di inondazione estremamente elevato, tanto da indicare come colpevoli di negligenza coloro che non avevano provveduto alle necessarie precauzioni.

 

Conclusioni

 

Questa ricerca mette in luce la debolezza del modello di lavoro basato sul case history perché conoscerne le conclusioni rischia di fare in modo che l’evento sia analizzato con la logica del “senno di poi” (Zuliani & Bellotto, 2013), condizionando il processo di analisi.

Il peso del “senno di poi” è ben evidenziato nella ricerca presentata perché al secondo gruppo fu detto esplicitamente di non tener conto, nell’esprimere il proprio giudizio, delle informazioni ricevute sull’inondazione e sull’entità dei danni causati.

Come concludono Kamin e Rachlinski, non è sufficiente chiedere alle persone di non tener conto di un dato perché esse non ne siano influenzate nei loro processi mentali.

Il secondo rischio connesso al case history è quello che il partecipante arrivi a convincersi di possedere già la soluzione adeguata qualora si dovesse presentare un caso analogo a quello discusso. In questo caso può entrare in gioco il meccanismo della over-confidence, che spinge a sopravvalutare le proprie abilità e la capacità di controllare la situazione. Il conseguente abbassamento di giudizio critico può spingere a diminuire la consapevolezza situazionale.

 

Bibliografia

 

Kamin K. A. & Rachlinski J. J. (1995), Ex Post ≠ Ex Ante: determining liability in hindsinght, Law and Human Behavior,  19 (1), 89-104.

Zuliani A. & Bellotto E. (2013), Dialogo sulla sicurezza, PdE, 28, 2-10

Zuliani A. (2017), Azione e reazioni nell’emergenza. Tutto quello che si deve sapere sui comportante umani per costruire un piano di emergenza, EPC Editore, Roma.